Entro la fine di novembre gli italiani saranno chiamati a esprimere il loro voto sul testo di riforma costituzionale licenziato dal Parlamento pochi mesi fa.
Sulla stampa e in TV si sprecano giudizi di ogni tipo su tale riforma che investe sia rilevanti temi di attualità politica che istituzionali. Purtroppo le risposte che i media propongono non sono mai limpide in quanto soffrono l’influenza di interessi contrastanti e non sempre dichiarati, per cui le tante e differenti risposte che offrono, anziché chiarire le idee, le confondono.
Per il che tanti cittadini (tra cui molti nonni…) pencolano tra le due sponde del dilemma e non si sono potuti ancora fare un quadro preciso di ciò che sia meglio, non solo per loro stessi, ma soprattutto, visto che molte delle “ricadute” della decisione investiranno molti anni a venire, per i propri figli e nipoti che di tali ricadute ne saranno soggetti e oggetto.
Per cercare di aiutarci in tale scelta abbiamo chiesto a un nostro associato che per lunghi anni è stato attivo come notaio, ma soprattutto è da sempre un appassionato studioso del Diritto, di offrirci una visione “asettica” della situazione, che ci consenta di assumere al momento del voto la “giusta” decisione.
Vi invitiamo a leggere attentamente il testo che segue. Domande e ulteriori chiarimenti sull’argomento li potremo fare e ricevere dall’autore in occasione dell’incontro del prossimo 11 settembre nel cui programma si troverà uno spazio ad essi riservato.
Considerazioni sul referendum costituzionale dell’autunno 2016
Di Paolo De Carli
Siamo chiamati alla fine di quest’anno a pronunciarci su una profonda revisione della nostra Costituzione. La revisione costituzionale è un procedimento complesso: occorrono due approvazioni di entrambi i rami del Parlamento a una distanza di almeno tre mesi con successiva eventualità di un referendum. A proposito del progetto di revisione in corso si deve innanzitutto osservare che a promuoverlo non è stato un organo assembleare/collegiale ad hoc (come fu l’assemblea costituente dei padri costituenti) e neppure è stata una Commissione di saggi eletti dalle Camere (perché il contenuto attuale della riforma s’allontana completamente dalle proposte della Commissione dei saggi questa peraltro nominata dal Presidente della Repubblica Napolitano – e dal disegno di legge Quagliariello che la svolgeva – sia dalle proposte della Commissione di esperti anche questa non nominata dal Parlamento ma dal precedente Governo Letta). Curiosamente dal punto di vista costituzionale i promotori della riforma si identificano oggi con una parte politica e precisamente con la parte politica al governo. Il Progetto è infatti il disegno di legge Renzi Boschi.
Il procedimento è iniziato nel 2014 con la presentazione del disegno di legge (Renzi Boschi) Nella prima fase il progetto di legge grazie al cd. Patto del Nazareno con Berlusconi ebbe un consenso più ampio di quello della maggioranza al Governo. Successivamente il patto fu fatto saltare da Berlusconi per protesta contro la scelta del PD di candidare Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Le ultime votazioni sul progetto sono state con l’approvazione della maggioranza di governo oltre al gruppo di Denis Verdini spostatosi da Forza Italia. Cosa altamente impropria è stata la richiesta da parte del governo del voto di fiducia sul progetto costituzionale che ha praticamente impedito la discussione e la manifestazione di opinioni dissenzienti all’interno dei partiti della maggioranza. Poiché nelle ultime votazioni non si è raggiunta la maggioranza dei due terzi, il progetto è stato sottoposto, su richiesta di un congruo numero di parlamentari, a referendum costituzionale. La disciplina del referendum costituzionale non prevede per la validità della votazione (che può essere soltanto un SI o un NO al progetto nel suo complesso) nessun quorum di voti validi, il progetto sarà approvato o rigettato qualsiasi sia la percentuale dei votanti e qualsiasi sia lo scarto tra i due schieramenti, anche di un voto. Come è noto il Presidente del Consiglio, in modo ancora una volta costituzionalmente improprio, ha collegato all’approvazione della riforma la propria permanenza al governo quasi che la riforma sia una parte del programma di governo senza della quale le Camere esprimerebbero implicitamente una sfiducia al Governo. La conseguenza quindi del rigetto del progetto non sarebbe soltanto l’annullamento del procedimento di revisione ma anche la caduta del Governo con le sue conseguenze politiche. Implicitamente la considerazione di Renzi è che senza la riforma non è possibile governare in modo efficiente.
Prima tuttavia di venire alle considerazioni di contenuto mi sembra tuttavia opportuno dire due cose sul senso odierno dell’istituzione parlamentare e poi di una costituzione. Più che una definizione solenne della conformazione e della meccanica del potere, la costituzione di un paese ha funzioni di garanzia nello spirito e secondo lo sviluppo storico del patto e del documento in questione [1].
La garanzia è garanzia dei cittadini nei confronti delle decisioni di chi ha il potere. Questo come è noto sta al’origine (antichissima) dell’istituzione parlamentare in Inghilterra (Magna Charta) . Il consenso dei rappresentanti del popolo (Parlamento) era necessario ogni volta che il Re (potere esecutivo) intendesse chiedere dei sacrifici al popolo. Il Parlamento nasce dunque e si giustifica come organo di controllo politico del Governo. La ragione del sorgere, alla fine del settecento, delle prime costituzioni (americana e francese) è simile. Si tratta di porre delle garanzie nei confronti dello Stato-governo. A differenza che in Inghilterra ove lo Stato non ha personalità giuridica e si identifica con la comunità e politici e funzionari sono diretta espressione dei cittadini, nel continente si forma l’idea dello Stato assoluto cioè di una entità persona giuridica con poteri illimitati dal punto di vista legislativo e amministrativo. Il concetto giuridico di Stato moderno nasce con la pace di Westfalia del 1648 ma la pretesa assolutistica di tale nuova forma di Stato, che consiste nel porsi come unica fonte del diritto, (a fronte dell’ampia precedente diversificazione) procede col tempo e si completa ai primi dell’ottocento con la nascita dei codici (il codice Napoleone è del 1804) E’ dunque di fronte allo svilupparsi delle pretese egemoniche del nuovo tipo di Stato che si avverte il bisogno di un originale patto con i cittadini che ne fissi dei limiti. Le Costituzioni stanno quindi all’origine delle nuove forme di Stato con due obiettivi fondamentali: da una lato quello di preservare nei confronti dello Stato i diritti fondamentali dei cittadini, dall’altro di limitare i poteri governativi con l’applicazione della tecnica della divisione dei poteri e della creazione di equilibri tra gli stessi (checks and balances). Ancor oggi si deve ritenere che la funzione fondamentale di una costituzione rimane la stessa: funzione di garanzia [2].
Ma codesto concetto definitorio fondamentale probabilmente non è applicabile soltanto al diritto costituzionale e alla sua fonte principale che è la Costituzione ma a tutto il diritto. Il diritto rende possibile l’esplicarsi della libertà umana con tutta la sua creatività insita nella tensione fondamentale dell’uomo (tensione all'”infinito”) e salvaguarda i valori che la civiltà raggiunge e afferma. Il diritto non è fine o valore, è mezzo e salvaguardia cioè garanzia. Il motore creativo e produttivo è la libertà dell’uomo, il potere può certo sviluppare politiche e quindi anche norme di scopo ma questo appare secondario rispetto al compito di favorire la libertà e salvaguardare i valori. Don Giussani che non era certo un giurista ma un uomo colto, nel senso più autentico del termine, ebbe a dare del diritto questa splendida definizione: “Il diritto è spada della libertà e salvaguardia dei valori”.
[1] Si ricordi il contenuto dell’art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; “tout societé dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la separation des puvoirs déterminée, n’a point de constitution.”. Una attenta, acuta illuminazione del concetto di costituzione e della sua origine in ONIDA V., Le costituzioni. I principi fondamentali della Costituzione italiana, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato, A. Barbera, V ed. Milano 1997, Vol I p.77 ss. Ove si ricorda che agli stessi concetti era informata anche la precedente e prima in ordine di tempo Costituzione americana del 1776 nella quale il significato di garanzia era accentuato perché essa voleva anche essere garanzia di indipendenza nei confronti dei poteri della Corona inglese. In questo senso la Dichiarazione di indipendenza proclamava: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati…” [2] La storia ha modellato codesto significato del concetto moderno di Costituzione; essa è un patto posto dai cittadini in sede costituente rispetto al sorgere di un nuovo Stato o al profondo rinnovarsi di uno Stato già esistente: in qualche modo è un patto (appunto costituzionale) con il quale il nuovo (o rinnovato) Stato viene limitato e si autolimita nei suoi poteri a garanzia dei cittadini stessi. La definizione nel suo significato originale e storico non sempre viene intesa come detto, venendovi spesso sovrapposte immagini descrittive tratte da concezioni diverse della organizzazione dei poteri, in molti casi desunte da una onirica fiducia nella esistenza di una perfezione di meccanismi statuenti l’organizzazione dei poteri e la definizione delle fonti del diritto, perfezione che renderebbe inutili le virtù umane. Come se esistesse una definizione atemporale di Costituzione e si potesse fare a meno del significato originante e della condizioni politico sociali in cui quel concetto si è originato. In proposito per una impostazione che privilegia la funzione di definizione strutturale e di enunciazione dei principi generali cfr. ad esempio: C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, IV ediz, Utet Torino 1979, p.187 ss., C. Mortati, voce Costituzione/ Dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana in Enc. Dir. Vol. XI, Ediz. Giuffrè, Milano 1962, p. 139 ss. E anche dello stesso autore, Istituzioni di diritto pubblico Vol. I, ediz VII Padova 1967, p. 27 ss. Anche p. 127 ss. Da Mortati l’approccio strutturale è affrontato anche sotto il profilo della “Costituzione in senso materiale” cfr. C. Mortati, La Costituzione in senso materiale , Milano, 1940 e gli sviluppi della dottrina stessa nei testi citati; ma il concetto garantista sta proprio a contrastare sviluppi differenti dell’assetto materiale dei poteri. Il concetto garantista è certamente frutto della classica concezione liberale. Esso tuttavia è stato pienamente recepito dal nostro testo costituzionale, come afferma G. Balladore Pallieri citato in seguito. Come osserva V. Onida, in Le Costituzioni cit. p. 85 ss. il passaggio nella nostra Costituzione da un impianto liberale ad uno democratico-sociale non è all’insegna di una negazione del primo ma di un suo completamento mediante l’attribuzione allo Stato di compiti di intervento in vista di una maggiore giustizia sociale. L’originario patto cittadini Stato viene ora a ricomprendere anche un patto “fra forze sociali e politiche”.Non entro nel merito della funzione di garanzia diretta nei confronti dei cittadini perché la riforma costituzionale non modifica nulla della prima parte della Costituzione che è appunto quella dei diritti fondamentali. Modifica invece molto del controllo parlamentare perché contiene una modifica dell’istituto parlamentare.
Qui va ricordata una cosa importante. I nostri padri costituenti del 1947 sentirono fortemente da un lato l’esigenza per i cittadini di una garanzia costituzionale forte nei confronti del potere politico e della maggioranza (ne fanno prova gli artt. 1, 2 ss. 70, 87 ss. 134 ss. 138 ss.), e dall’altro lato di un forte controllo politico parlamentare del governo e di una estesa applicazione della tecnica della divisione dei poteri e dell’equilibrio fra gli stessi [3].
Per questo adottarono il sistema del bicameralismo paritario per la formazione delle leggi, rivestirono di rigidità le norme costituzionali, disciplinarono la Corte costituzionale, rivestirono di garanzia anche la figura del Presidente della Repubblica, resero difficili e in alcuni casi anche impossibili le modifiche delle norme costituzionali. Fin dall’inizio alcuni grandi costituzionalisti (come scusate il mio maestro Balladore Pallieri che scrisse il primo commento alla nuova Costituzione) misero in luce questa fondamentale natura e funzione della nostra Costituzione. Inoltre per attingere il secondo degli scopi menzionati i padri costituenti vollero porre in grande risalto il principio della “democrazia rappresentativa” per il quale per l’assunzione delle decisioni legislative si deve passare attraverso la mediazione dei “rappresentanti del popolo” che “senza vincolo di mandato” (art.67 Cost.) traducono la volontà degli elettori in programmi e alleanze di governo (artt. 92.94 Cost.). Questi due pilastri sono stati riconosciuti e affermati dalla migliore tradizione di studi dei costituzionalisti italiani (Balladore Pallieri, Mortati, Esposito, Crisafulli, Lavagna, Barile, Amato, Barbera, Paladin, De Vergottini, Mazziotti, Caretti De Siervo ecc.). Valgano per tutti le considerazioni di un maestro da tutti riconosciuto come Vezio Crisafulli che nel 1957 Discorso inaugurale dell’anno accademico 1957-58 dell’Università di Trieste affermava: “…già da tempo la dottrina più avvertita ha esattamente individuato la caratteristica peculiare della forma di governo italiana nella predisposizione costituzionale di un sistema di limiti alla maggioranza…in modo da evitare che la sovranità popolare affermata dall’art. 1 si risolva automaticamente nella sovranità di una semplice maggioranza parlamentare, quale che sia.”
Il tipo di governo delineato in Costituzione fu concordemente definito parlamentare e fu fin dall’inizio rilevata da illustri studiosi una eccessiva compressione dei poteri governativi. Tuttavia a pochi anni di distanza dalla entrata in vigore della Costituzione si rilevò anche che la teorica debolezza (sulla carta) dell’organo di governo non aveva affatto impedito a questo di indirizzare la legislazione e di produrre un amplissimo numero di provvedimenti legislativi. A distanza di anni fu anche lamentata da più parti la scarsa durata dei governi ma occorre precisare che rarissime furono le crisi specificamente parlamentari, accompagnate cioè da un voto di sfiducia, mentre la gran parte delle crisi registrarono delle dimissioni che trovavano causa in contrasti interni ai partiti o in contrasti fra i partiti che formavano le coalizioni. L’instabilità non trovava quindi causa tanto nel sistema di formazione delle coalizioni di governo quanto nella dialettica fra partiti o interna ai partiti non raramente incentrata sul gradimento o sulla discriminazione delle persone per decisioni di correnti partitiche.
[3] In questo senso G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, X Ediz. , Milano 1972, p. 150 ss.: “…la nostra costituzione ha posto ogni cura per evitare il pericolo di nuovi sistemi dittatoriali o totalitari in Italia. A questo fine ha attuato al massimo la divisione dei poteri e la moltiplicazione degli organi costituzionali, per modo che ciascuno ha potestà limitata e nessuno è in grado di esercitare un potere assoluto e illimitato::: E’ difficile immaginare un sistema in cui i poteri siano maggiormente divisi, e in cui maggiori garanzie siano fornite per il rispetto delle norme costituzionali medesime.”S’aggiunse col tempo la crisi e quasi la scomparsa dei partiti, nel senso costituzionale del termine, che ha tolto di mezzo, come fattore determinante per la stabilità di un governo, l’efficacia di una accordo programmatico fra le forze politiche per il sostegno ad un governo. La debolezza delle idee sociali e programmatiche delle nuove forze politiche, il sorgere. lo scomparire e il veloce trasformarsi delle stesse, la disinvoltura da parte dei parlamentari nell’abbandonare e nel passare ad altre forze rendono molto incerto il sostegno duraturo ad un governo e quindi la stabilità del governo. D’altro canto vi è il crescente potere dei media e del web. Esso si rivela come sempre più interferente e condizionante l’attività politica, nella formazione stessa e nel consenso che ottengono le forze politiche, nel gradimento dei singoli che ricoprono cariche governative o amministrative, nel gradimento che ottengono singole decisioni politiche. Allo stesso tempo è da considerare che il consenso dei media e dei social networks è fortemente influenzato dalle modalità con cui viene richiesto e quindi dall’uso e dalla guida di chi ne costruisce i meccanismi. Oggi il consenso si costruisce con l’uso e il lancio di slogans e di spots ad alta efficacia persuasiva. Chi fa politica è quindi spinto e forse costretto a inserirsi fra i costruttori di consenso dei media e dei social networks (o forse sono i costruttori di consenso dei social che inventano e lanciano le nuove personalità politiche). In questo modo la politica attraverso i nuovi mezzi tende a premiare un populismo che si forma su reazioni istintive spesso fortemente egoistiche. Ciò rende sempre più difficile governare in modo trasparente senza usare i media in modo strumentale facendo apparire vantaggi inesistenti e nascondendo sacrifici necessari. Se l’uso strumentale dei media produce molti pericoli per la democrazia, l’uso corretto può essere invece ben vantaggioso per la democrazia costituendo un controllo democratico di base. Di questo bisogna essere consapevoli.
Certo che se nella Costituzione la costruzione del consenso politico era immaginata attraverso i partiti previsti all’art.49 che erano contrassegnati da manifesti e programmi politici con molti elementi ideologici, oggi occorre prender atto del nuovo modo di formazione del consenso meno specializzato e più selvaggio. D’altro canto è la società civile con le sue formazioni sociali, con la sua maturità politica che esprime i suoi uomini e le sue idee politiche e quindi il mondo politico sarà il riflesso della coscienza e della responsabilità della società civile e, a questo livello, nessuna norma giuridica sarà in grado di per sé di incrementare il livello di maturità e intelligenza politica dei rappresentanti.
Di fronte a questo panorama la figura del rappresentante del popolo dovrebbe essere una figura alta di persona che non è succube del consenso facile ma piuttosto crea consenso in modo serio attraverso una linea di coerenza, di figura che conosce le lingue, una figura che sa che i problemi interni del paese oggi sono inestricabilmente legati a situazioni europee e mondiali e che quindi ha uno sguardo consapevole ed esperto anche su queste. Ancor di più io credo che il rappresentante del popolo italiano debba saper vedere non solo l’interesse italiano ma quello europeo quindi essere propositivo di una politica dell’Unione a volte anche contro gli immediati interessi nazionali. Soprattutto la leadership politica del paese dovrebbe essere molto consapevole dei valori della civiltà europea (vita, persona, libertà ecc.) che debbono oggi essere posti a base della politica di integrazione dei migranti. Certo per politici di questo rango occorrerebbero delle scuole di formazione, delle facoltà idonee e tirocini internazionali opportuni ma anche e fondamentalmente una provenienza e una esperienza in settori della società civile con forti afflati ideali senza dei quali ogni politica si assoggetta a interessi di parte.
Una stabilità di governo è certamente importante. D’altro canto non è possibile che la riforma istituzionale protegga di fronte all’instabilità dei singoli cittadini né di fronte all’instabilità dei parlamentari; di fronte all’instabilità morale e ideale dei politici non vi è in realtà rimedio istituzionale. Il diritto ha certo una grande funzione ma ha il grande limite di non potere di per sé rendere buono l’uomo. Di fronte alla instabilità dell’uomo e peggio alla perdita della coscienza dei valori v’è solo da ricordare che, per fortuna, vi è un altro protagonista della storia, il Signore, che la conduce oltre la libertà dell’uomo e il suo limite.
Bisogna oggi essere ben consapevoli che chi fa le leggi e le norme non è certo più soltanto il Parlamento nazionale. Un colossale spostamento di competenze è andato a favore delle decisioni dell’Unione europea. L’Unione giuridicamente è una grandissima costruzione. Ad essa ormai spettano primariamente le norme in campo economico relative alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali e relative alla concorrenza e alla regolazione dei mercati, ma spettano anche ampie competenze riguardanti l’agricoltura, i trasporti, l’energia, le reti transeuropee, l’ambiente, la banca, la finanza e ancora spettano competenze in materia di sanità, assistenza, spazio di libertà sicurezza e giustizia. Anche nel campo fiscale il condizionamento europeo si fa sentire assai fortemente specie per quanto riguarda l’adeguamento interno al meccanismo europeo di stabilità (Fiscal Compact). Rimane allo Stato nazionale una competenza soprattutto sui temi etici perché le competenze dell’Unione, in via di principio, non si estendono alla disciplina di diritto privato, penale e processuale se non per le parti che possono necessariamente essere implicate dalle competenze primarie dell’Unione. Si è visto tuttavia come la giurisprudenza comunitaria e della CEDU, fondando sul principio di eguaglianza e su norme della Carta dei diritti del Trattato dell’Aia, abbia condotto i paesi membri verso un recepimento di norme etiche.
Oltre alla competenza normativa europea dobbiamo tener conto della grande quantità di norme transnazionali e di diritto comune: molti contratti civilistici ormai da tempo non hanno più una disciplina interna (oppure la disciplina interna è semplice ripetizione e recepimento di modelli che vengono da altre fonti): i contratti delle imprese globali, i contratti di leasing, factoring, franchising, project financing, securitisation, quelli riguardanti i prodotti finanziari, futures, swaps, derivatives; anche i settori bancario, finanziario e assicurativo sono ormai soggetti a discipline transnazionali e di diritto comune mediante norme che provengono da Board, Committee, Organisations di settore, per non parlare delle Autorità del mercato che producono norme a seconda della grandezza dei mercati contemplati.
Dunque il Parlamento ( e il Governo) interni non sono più decisori politici generali, essi operano a sovranità limitata in mezzo a molti altri decisori. E, si noti, codesti decisori e le loro decisioni non sono in genere contrassegnati da procedimenti a base democratica e rappresentativa. Il Parlamento europeo infatti ha, come è noto, ben poche competenze in campo legislativo; gli organi decisionali sono il Consiglio e la Commissione e per quanto riguarda le norme transnazionali esse trovano fonte in prassi spesso imposte da contraenti forti o in decisioni di Commissioni e Comitati la cui obbligatorietà non trova base in una legittimazione giuridica quanto in prassi consensuali. Non ci si deve scandalizzare di tutto ciò; è semplicemente conseguenza del fatto che il processo di globalizzazione e di unificazione degli ambiti giuridici prescinde quasi sempre da una legittimazione democratica. Questo processo ci deve tuttavia rendere avvertiti che con la progressiva perdita di competenze normative degli Stati si è andata anche riducendo fortemente la funzione di garanzia delle Costituzioni. Il patto costituzionale non garantisce più i cittadini rispetto alle fonti extrastatuali del diritto. Da questo punto di vista risalta maggiormente l’importanza di avere all’interno istituzioni veramente democratiche e rappresentative e l’importanza che i rappresentanti eletti degli Stati, proprio perché tali, si adoperino per estendere agli ambiti sovranazionali democrazia e rappresentatività evitando il formarsi di poteri forti sganciati da ogni controllo.
Veniamo dunque al merito della nostra riforma costituzionale.
Proprio per rafforzare la capacità decisionale di Parlamento e Governo la riforma prevede una sola Camera “politica” in senso pieno, appunto la Camera dei deputati che accorda e revoca la fiducia al Governo. Il Senato cui non spetta più la competenza legislativa ordinaria ha funzioni di rappresentanza delle autonomie regionali e locali e funzioni legislative solo per leggi particolari (revisione costituzionale, leggi costituzionali, ratifica di trattati riguardanti gli accordi di Unione europea, leggi riguardanti il potere sostitutivo dello Stato, ecc. ma non per es. per le leggi che danno attuazione alle autonomie locali, per le leggi annuali di introduzione interna di Direttive e norme comunitarie). Sulle altre leggi il nuovo Senato avrà soltanto la facoltà di chiedere delle modifiche ai disegni di legge approvati dalla Camera, modifiche sulle quali dovrà di nuovo deliberare la Camera in modo comunque definitivo e insindacabile. Inoltre spetteranno al Senato unitamente alla Camera l’elezione delle alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, giudici costituzionali, Consiglio superiore della magistratura). Il nuovo Senato dovrebbe, nell’intenzione dei promotori della riforma, garantire le autonomie locali regionali e comunali. Non pare tuttavia in grado di farlo perché non ha sostanziali competenze su tutta la legislazione statale che riguarda: norme comuni e principi generali relativi alle materie regionali, né per quanto riguarda la traduzione interna del diritto dell’Unione europea in materie che interessino le regioni e i comuni.
Il nuovo Senato sarà composto di 100 membri, circa un terzo degli attuali. I consiglieri regionali di ogni regione eleggeranno dei rappresentanti in proporzione alla loro popolazione. Nessuna Regione potrà avere un numero di rappresentanti inferiore a due. Si calcola che per es. la Lombardia avrà 14 senatori. Potranno essere eletti senatori i consiglieri regionali e un sindaco per ogni regione. Una legge nazionale dovrà disciplinare il nuovo sistema elettorale. I senatori continueranno a svolgere le loro funzioni di consiglieri regionali o di sindaci ed anzi cesseranno di essere senatori allorché dovessero perdere per qualsiasi motivo la loro funzione di consiglieri o di sindaci. Quindi i senatori avranno un doppio incarico e una doppia funzione. Non ci sarà quindi una durata in carica dei senatori né una scadenza per il nuovo Senato.
Affrontiamo ora il problema se il nuovo sistema bicamerale differenziato offra a sufficienza quelle garanzie che, come abbiamo visto, sono la ragione stessa di una costituzione, garantisca cioè a sufficienza il controllo parlamentare, la divisione e l’equilibrio tra i poteri in particolare, per il problema che ci occupa, l’equilibrio tra potere esecutivo e legislativo.
Bisogna qui introdurre la considerazione del nuovo sistema elettorale della Camera approvato con legge n. 52 del 2015, il cd. Italicum. Le precedenti elezioni delle Camere si tennero nel febbraio 2013 con un diverso sistema elettorale il cd, Porcellum (L. n. 270 del 2005) che attribuiva un consistente premio di maggioranza alla coalizione vincente (differenziato nel meccanismo di attribuzione fra Camera e Senato perché l’attribuzione per il Senato era prevista su base regionale). Con sentenza n. 1 del 2014 la Corte costituzionale ebbe a giudicare incostituzionale il premio di maggioranza e la mancanza della possibilità di preferenze del Porcellum e tuttavia affermò che mantenevano validità le elezioni del 2013 in quanto precedenti al ricorso costituzionale . Quindi, allo stato attuale, sulla base quindi della legge elettorale del Porcellum corretta con le decisioni della Corte e, quindi- sulla base di un sistema che è stato definito Consultellum dovrebbero avvenire le prossime elezioni del Senato poiché, come detto, l’Italicum vale solo per la Camera.
Il nuovo sistema dell’Italicum divide il territorio in 100 seggi plurinominali a capolista bloccato e possibilità di esprimere due preferenze per il resto della lista. Alla lista che ottiene almeno il 40% dei voti al primo turno o che vince il ballottaggio al secondo turno è attribuito un premio di maggioranza di 340 seggi che assicura alla lista stessa la maggioranza assoluta alla Camera per tutta la legislatura (5 anni). Se consideriamo un possibile astensionismo del 40% e, basandoci sulle ultime elezioni del 2013 che hanno attribuito alle prima lista (5 stelle) al primo turno circa il 25% dei voti ne ricaviamo che la prima lista con una percentuale di votanti (al primo turno) del 15% sul totale del corpo elettorale ottiene la possibilità di governare. In più si deve considerare che il meccanismo privilegia molto le designazioni dei partiti rispetto agli eletti che escono dalle preferenze. Infatti nei 100 collegi elettorali i capilista sono fissati dai partiti; inoltre tutti coloro che entrano in virtù del premio di maggioranza sino al raggiungimento dei 340 seggi saranno indicati dalla lista; infine poiché a tutte le altre liste rimangono 290 seggi, con una forte riduzione rispetto alla proporzionalità sarà molto probabile che risultino eletti i capilista e non molti altri.
Benchè la situazione politica di oggi sia totalmente diversa da quella di allora non ci si può sottrarre dal ricordare un altro esempio famoso di legge elettorale, la legge Acerbo che spalancò la porta in Italia al regime fascista e alla cancellazione delle istituzioni democratiche e rappresentative. Essa attribuiva alla lista di maggioranza che avesse superato il 25% dei voti validi un premio di maggioranza che le faceva ottenere i due terzi dei seggi della Camera dei deputati; il terzo rimanente dei seggi veniva suddiviso tra tutte le altre liste.
Proviamo quindi a rappresentare i diversi scenari che si verrebbero a creare in caso di vittoria dei SI o invece in caso di vittoria dei NO al referendum.
Se venisse approvata la riforma costituzionale, se la Corte costituzionale dichiarasse non ammissibile o non fondata la questione di costituzionalità dell’Italicum sollevata dal Tribunale di Messina e se l’Italicum (successivamente al successo dei SI al referendum) non venisse impugnato ex art. 39 comma 11 (disposizioni transitorie della riforma) di fronte alla Corte costituzionale o questa respingesse il ricorso (e quindi lo ritenesse costituzionalmente compatibile), con un Senato, come si è visto, depotenziato sul piano legislativo, la situazione che ne nascerebbe sarebbe la seguente.
Se la lista che vince è compatta e non ha defezioni ha la possibilità con 340 seggi di far approvare tutta la legislazione ordinaria ed anche di deliberare lo stato di guerra (nuovo art. 78 maggioranza assoluta). Avrà bisogno dell’accordo del Senato sulle poche leggi per le quali è prevista l’approvazione bicamerale ma si tratta di casi eccezionali. Inoltre è probabile che nel Senato la lista maggioritaria nel paese ottenga una maggioranza simile perché ogni regione eleggerà solo alcuni, non molti consiglieri che difficilmente potranno rappresentare adeguatamente le minoranze come espresse nei consigli regionali. La lista di maggioranza potrà anche approvare in due letture leggi di modifica della Costituzione (salva la sottoposizione a referendum se non si raggiunge la maggioranza dei tre quinti) ed approvare anche una dichiarazione di guerra del paese (maggioranza assoluta). La lista di maggioranza avrà invece bisogno di ricorrere all’alleanza con qualche lista esterna (per una ammontare di circa 38 voti in più) per alcune votazioni particolari come quella per la elezione del Presidente della Repubblica (tre quinti), e dei tre giudici della Corte costituzionale (due terzi e poi tre quinti).
Se invece non venisse approvata la riforma costituzionale, cioè se vincessero i no, e se non venisse modificata la legge elettorale recente e di cui ho detto, alle prossime votazioni potremmo avere una Camera con una forte prevalenza numerica della lista di maggioranza ma avremmo ancora un sistema bicamerale e quindi un Senato eletto con la precedente legge elettorale. Poiché la precedente legge elettorale con le modifiche conseguenti alla sentenza della Corte costituzionale (per questo oggi definita Consultellum) non darebbe premi di maggioranza particolari, ne deriverebbe una composizione del Senato assai diversa da quella della Camera. Questo non significherebbe necessariamente una instabilità maggiore di quella attuale, anzi. La lista di maggioranza avendo una maggioranza assicurata alla Camera dovrebbe probabilmente concordare delle alleanze al Senato.
Come accennato pende attualmente nei confronti della nuova legge elettorale Italicum un ricorso di costituzionalità. La Corte dovrebbe decidere il 5 ottobre p.v. Se seguisse la propria giurisprudenza fissata nella Sentenza n. 1/2014 la Corte potrebbe effettivamente rilevarne l’incostituzionalità. Ciò, se dovesse avvenire prima del referendum, potrebbe attenuare gli effetti negativi del combinato disposto delle due normative. Tuttavia permarrebbero i problemi rilevati in ordine ai difetti della redazione della riforma.
In sostanza come rispondere, in caso di approvazione della riforma, alla domanda sulla conservazione del controllo parlamentare e dell’equilibrio dei poteri? Con la riforma costituzionale se il partito (la lista) di maggioranza è coeso il controllo verrebbe meno per tutta la legislatura. Rimarrebbe soltanto il giudizio politico al momento delle successive elezioni politiche, posto che il governo vi si sottoponga e non determini nel frattempo modifiche di regime. Sul piano della distinzione dei poteri il comportamento del parlamento, sostanzialmente monocamerale, e dominato da una lista a maggioranza legalmente garantita non si distinguerebbe da quello del governo. Legislativo ed esecutivo andrebbero a coincidere.
E veniamo al problema della riforma delle autonomie locali: Regioni, Province e Comuni.
Dobbiamo ricordare che le autonomie locali sono iscritte nella storia d’Italia che è storia di diversità politiche, di costume, culturali, di frazionamento in tante soggettività politiche. Il Risorgimento ebbe, come noto, due anime: quella unitaria (Mazzini, i politici piemontesi) e quella federalista (Gioberti, Balbo, Cattaneo, i cattolici) Vinse quella unitaria ma i nostri padri costituenti ripresero l’idea federalista in una chiave minore stabilendo ampie autonomie locali. Tali autonomie si attuarono però solo molti anni dopo la Costituzione, negli anni settanta e con leggi applicative stataliste e centraliste e con una successiva giurisprudenza della Corte costituzionale pure fortemente centralista. Si sviluppò allora a livello politico locale, nella politica delle Regioni ma anche nel paese soprattutto con l’affermazione della Lega un movimento regionalista a autonomista che sboccò nelle riforme amministrative Bassanini (soprattutto L. n. 59 del 1997 che fondavano su un self restraint dello Stato) e poi nella riforma propriamente costituzionale Amato-D’Alema del Titolo quinto della Costituzione che non raggiunse nelle Camere la maggioranza dei due terzi nelle due letture e che fu sottoposta nel 2001 al referendum costituzionale e che ottenne la maggioranza dei consensi dei cittadini. Qui dunque va fatta una prima osservazione il nuovo Titolo quinto della Costituzione è una parte costituzionale che quindici anni fa ha ottenuto il consenso dei cittadini e che ora viene risottoposto al voto popolare. Allora fu sottoposto al voto popolare per un allargamento dei poteri autonomi oggi per una restringimento degli stessi.
La riforma del 2001 fu una riforma fortemente autonomista, con significativo allargamento delle competenze legislative delle Regioni non più soggette alla previa emanazione di leggi quadro statali, con l’abolizione del limite dell’”interesse nazionale” a qualsiasi disposizione di legge regionale, con l’abolizione dei Commissari di governo e con l’abolizione dei controlli statali di legittimità e di merito sugli atti regionali, mantenendosi soltanto un controllo di tipo auditing della Corte dei conti sulla legislazione di spesa e il controllo di legittimità costituzionale della Corte costituzionale. Ma soprattutto la grande novità fu l’introduzione nel 2001 dei principi di sussidiarietà, diversificazione e adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative che quindi avrebbero dovuto essere allocate al livello più basso (Comune) a meno che il livello più basso non fosse giudicato non in grado di gestirle. E’ stato di conseguenza eliminato il parallelismo fra funzioni legislative e amministrative per il quale le funzioni spettavano all’ente regolatore e disciplinatore delle stesse.
Dopo il 2001 la volontà autonomista è molto scemata e la riforma ha stentato ad attuarsi anzi possiamo dire che è stata in molti aspetti apertamente tradita. Vediamo come. Sono stati ritardati e poi rinviati sine die i provvedimenti legislativi che dovevano attuare i trasferimenti di funzioni amministrative secondo il principio di sussidiarietà così che se Il legislatore della riforma costituzionale del 2001 aveva dato più competenze legislative alle Regioni il legislatore ordinario statale poi ha omesso di darvi attuazione col trasferimento di molte funzioni amministrative ai livelli regionale e locale. Di più lo Stato legislatore e poi la Corte costituzionale hanno sistematicamente fatto intendere e inteso i “principi fondamentali” della legislazione in materia concorrente come quelli desumibili dalla legislazione statale vigente, in questo modo ponendo alla legislazione regionale una gabbia che la ha tendenzialmente ingessata sulla situazione normativa esistente. Inoltre la Corte costituzionale ha giustificato l’invadenza statale in materie anche di competenza primaria delle Regioni forgiando categorie e strumenti di centralizzazione delle competenza come il criterio della prevalenza per le leggi a cavallo fra materie, il criterio della competenza statale nel caso delle materie trasversali, il criterio della chiamata in sussidiarietà per il quale il principio di sussidiarietà giustifica movimenti ascensionali della competenza (dalle Regioni allo Stato), il criterio del coordinamento della finanza pubblica per le materie incidenti su problematiche economiche, ecc.
I padri costituenti avevano pensato alle Regioni essenzialmente come luoghi delle decisioni normative e amministrative generali, come enti molto agili senza grandi strutture e senza uffici come testimonia il testo dell’originario ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione (ora abrogato) che recitava: “La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province e ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici.”. Con la riforma del 2001 quell’articolo è stato soppresso in quanto veniva introdotto il “principio di sussidiarietà” che avrebbe dovuto essere ancor più drastico nello spostare a valle le funzioni amministrative. Ma è mancata totalmente l’attuazione di tale principio. In questo modo i funzionari statali e regionali sono rimasti al loro posto.
Così le Regioni si sono riempite di personale e sono diventate, come gli enti locali, enti fortemente burocratici.
Veniamo alle modifiche previste dalla riforma in questo campo.
L’esigenza di sfoltimento del personale e di spending review è accolta dalla riforma con l’abolizione delle Province. Rimangono tuttavia le Città metropolitane le cui competenze appaiono per ora vaghe e indefinite. La consistente struttura burocratica delle Province dovrà essere tagliata e riallocata ad altri livelli. Viste le vicende passate non vi è molto da sperare in ordine a codesta trasformazione; anche in questo caso occorrerà attendere le leggi di trasferimento delle funzioni e la volontà politica di una allocazione efficiente che massimizzi la resa degli uffici piuttosto che il mantenimento dei posti di lavoro.
Le finalità di semplificazione amministrativa potrebbe essere perseguita anche con gli strumenti attuali semplicemente applicando il principio di sussidiarietà che permetterebbe una allocazione di funzioni e anche di personale a Comuni e Città metropolitane. Tuttavia, come si è visto, l’attuazione di quel principio è stata sinora affossata e tradita.
La riforma prevede un drastico taglio delle competenze legislative regionali. In alcuni casi codesto taglio appare ben giustificato: porti e aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione e distribuzione dell’energia, coordinamento della finanza pubblica non possono essere competenze condivise con le regioni. In altri casi il taglio appare invece pesante per le regioni: sono state attribuite alla competenza esclusiva dello Stato: le “disposizioni generali e comuni” per la sanità, l’assistenza, l’istruzione e la formazione professionale, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, l’ambiente, ed anche “le disposizioni generali e comuni” sul governo del territorio. Quando si parla di “disposizioni generali e comuni” come nella riforma si può arrivare a sostanzialmente coprire tutto il campo normativo data la vaghezza dei termini (tutte le norme devono essere generali e comuni) molto più che con l’uso della termine del testo attuale dei “principi fondamentali” che spettano allo Stato solo nelle materie di competenza ripartita. Inoltre la nuova terminologia sembra essere fonte di conflitti forse più che la vecchia.
Oltre a ciò viene introdotta col quarto comma del nuovo art. 117 Cost. una clausola generale che permette allo Stato di legiferare (se vi è richiesta di modifica da parte del Senato occorre la maggioranza assoluta in Parlamento che comunque è a disposizione della lista vincente) in materie di competenza regionale: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.”. Torna dunque in grande stile il limite pervasivo dell’ “interesse nazionale” abolito dalla riforma del 2001 a seguito dell’ampio utilizzo antiautonomista fatto in sede legislativa e della giurisprudenza costituzionale. Potrebbe quindi tornare anche quella funzione statale di indirizzo e coordinamento ritenuta legittima dalla Corte proprio per far valere l’interesse nazionale. Oggi lo spostamento in alto delle competenze è circondato di precauzioni (self restraint regionale, operatività verso l’alto del principio di sussidiarietà mediante accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni). Con la riforma lo Stato potrebbe occupare spazi non propri con estrema facilità. Rimane anche nella riforma praticamente invariato il potere sostitutivo dello Stato che però riguarda soltanto ipotesi di disapplicazione regionale di obblighi internazionali e di minaccia a valori fondanti e imprescindibili (personalità internazionale dello Stato, tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica, unità giuridica ed economica, livelli essenziali delle prestazioni…).
Indubbiamente, e lo testimonia il travaglio incorso dalla istituzione delle regioni ad oggi, appare difficile tracciare una distinzione netta fra competenze legislative statali e regionali e il problema degli sconfinamenti è fonte di confusione e di incertezza del diritto; ora gli sconfinamenti sono stati tanti sia per opera dello Stato nei settori materiali delle regioni sia anche e recentemente viceversa da parte di alcune regioni in settori e ambiti statali e hanno dato luogo a un nutrito contenzioso di fronte alla Corte costituzionale. Non si può probabilmente fare a meno di clausole elastiche sostanzialmente sino ad oggi elaborate, come si è visto più sopra, dalla Corte costituzionale (prevalenza di materia, materie trasversali, sussidiarietà, ecc.). A questo proposito, ove dovesse passare la riforma, la Corte dovrebbe sicuramente fare un grosso lavoro sui concetti di “disposizioni generali e comuni”. Ma ancor di più si palesa necessaria una sede di composizione consensuale e la stessa Corte ne ha rilevato la necessità nei casi di innalzamento di competenze a mezzo del principio di sussidiarietà, richiedendo un accordo in Conferenza Stato-Regioni, oggi unica sede di composizione secondo il modello del cd. federalismo cooperativo. Probabilmente la soluzione migliore sarebbe quella di una composizione preventiva in una Camera politica come poteva essere il Senato regionale se fosse stato investito della competenza legislativa sulle materie di legislazione concorrente. Questo tuttavia non è avvenuto e nel testo della riforma (nuovo art. 70 Cost.) il Senato non ha la forza di far valere adeguatamente le ragioni dell’autonomia disponendo solo del potere di proporre delle modifiche “…sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva”.
Certamente oggi ci sono forti esigenze di decisioni unitarie che hanno ispirato la svolta nel trattamento delle autonomie delineata nella riforma. Fra tutte in particolar modo i problemi dell’immigrazione e della crisi economica con le esigenze di limitazione della spesa per adeguamento al sistema comunitario di stabilità.
In ogni modo non si può dire che manchino allo stato attuale dell’assetto costituzionale mezzi per dare risposta alle esigenze unitarie. Come abbiamo visto diversi di questi mezzi sono stati predisposti dalla Corte costituzionale e ci si può valere della giurisprudenza di questa in molti campi ormai assestata. Forse la valorizzazione della giurisprudenza in questi campi da luogo a minori incertezze rispetto a ad un nuovo testo con nuove clausole (“le disposizioni generali e comuni”) che implicherebbero una nuova declinazione nelle diverse materie; sarebbe probabilmente una nuova ondata di ricorsi mentre allo stato attuale il numero dei ricorsi alla Corte è in netta diminuzione.
Gioca qui anche la falsa idea che riducendo gli ambiti di autonomia si riduca anche la spesa pubblica. Ciò è contestato dall’esperienza. Per esempio al di là delle campagne scandalistiche dei media, è indubitabile che la Lombardia che ha utilizzato appieno la propria autonomia nella gestione della sanità dando spazio anche ai privati, ha creato in questi anni enti ospedalieri di ricerca e di cura di eccellenza (IEO, Humanitas, Policlinico di San Donato, Policlinico di Monza, San Raffaele, ecc.). Ma come la Lombardia si sono comportate in un modo virtuoso il Veneto, l’Emilia Romagna, le Marche, la Toscana che i dati OCSE considerano eccellenze mondiali. Tutte regioni con un bilancio della spesa sanitaria certamente migliore di altre regioni molto più arretrate nella ricerca e nella cura e molto più deficitarie nella spesa. L’autonomia favorisce l’emulazione e la competizione e la responsabilità perché avvicina il decisore all’utente.
Ora la prospettata riforma costituzionale delle autonomie, in sostanza le annulla . La drastica riduzione delle competenze legislative autonome, la introduzione di un amplissimo potere di intromissione legislativa dello Stato, il mantenimento del legame privilegiato Stato-Comuni, la disapplicazione pratica del principio di sussidiarietà, l’impotenza del nuovo Senato impossibilitato a rappresentare le autonomie sono ingredienti idonei a svuotare dall’interno il concetto di autonomia. A seguito della riforma si otterrebbe il risultato pratico di uno Stato con una organizzazione amministrativamente decentrata, più dirigista e più burocratica. Le Regioni, i Comuni e le Città metropolitane sarebbero snodi di quella organizzazione decentrata tutti con una dipendenza diretta dallo Stato.
Vi è sicuramente una crisi delle autonomie locali indotta da diversi fattori: Innanzitutto la disapplicazione della riforma del 2001 con un governo centrale inadempiente e apertamente contrario alla sua attuazione. In secondo luogo l’alto livello della conflittualità Stato-Regioni con l’utilizzo da parte dello Stato del rapporto privilegiato coi Comuni (derivante dal vincolo finanziario dei Comuni nei confronti dello Stato e dal mantenimento dei legami amministrativi del Comuni con lo Stato con inattuazione delle disposizioni costituzionali e in particolare del criterio della sussidiarietà) in chiave antiregionalistica. Di più in molti casi la conflittualità tra poteri istituzionali Stato- Regioni, Regioni-Comuni, Magistratura-Politica, Magistratura- Regioni e l’uso strumentale alla battaglia politica della Magistratura, della stampa e dei media ha certamente nuociuto gravemente alle istituzioni stesse seminando discredito, sfiducia e disaffezione. Lo spirito autonomista della fine secolo e dei primi anni del duemila che ebbe a dar luogo alla riforma del 2001 si è molto attenuato non tanto per sfiducia nelle autonomie quanto dunque per una sfiducia generale nelle istituzioni comprese quelle europee. Ma per ricreare la fiducia e l’affezione occorre una considerazione positiva della propria storia e delle proprie origini e dei propri valori, occorre una fierezza nella considerazione delle origini e dei valori. Per recuperare tale consapevolezza storica e valoriale occorre partire dalle piccole comunità e andare alle grandi altrimenti tale recupero si rivelerà retorico, come spesso è stato retorico il riferimento alla patria e al risorgimento. E’ infatti retorico ciò che non considera la storia nei suoi diversi fattori.
Dunque occorre puntare sulle comunità minori a partire dalla famiglia e non abbandonare i buoni frutti che l’evolversi delle istituzioni a livello nazionale e a livello europeo hanno prodotto negli anni recenti altrimenti si rischia di buttare il bambino insieme all’acqua calda. Il che per me vuol dire essere autonomisti a livello interno e federalisti a livello europeo.
Proposte di modifica della Costituzione – ddl di riforma costituzionale n. A.C. 2613-D