Dall’anti-intellettualismo all’irrazionalismo:
la cifra della nostra epoca
Un contributo del socio Maurizio Redaelli
Da tempo ci viene ricordato autorevolmente (Benedetto XVI ne ha scritto pagine memorabili) che viviamo in un’epoca in cui il pensiero dominante è determinato da un relativismo sempre più pervasivo, a livello etico, politico, culturale: non solo non esiste più la Verità (con la maiuscola), ma nemmeno esistono più le “piccole verità” della vita, cioè quelle certezze, che un tempo erano garantite dal semplice buon senso comune, e che oggi non hanno più diritto di cittadinanza, se non come pura opinione personale, che – come tale – non può certo pretendere di essere patrimonio comune.
C’è però un aspetto non meno importante del comune sentire, che rischia di influenzare poco o tanto anche tutti noi, e che è conseguenza diretta di questo relativismo ossessivo. Si tratta di un crescente anti-intellettualismo, di una diffidenza verso la razionalità e la conoscenza intellettuale, una più o meno aperta ostilità verso chi è “esperto”. Chi ne sa più di noi su un qualsiasi argomento appare spesso come un pericoloso manipolatore delle nostre opinioni, qualcuno che approfitta delle sue conoscenze per farci pensare quello che lui vuole che pensiamo. Gli inviti a “non ragionare troppo”, a “scegliere di pancia”, a fidarsi di chi ha fatto “l’università della strada” hanno un successo che sarebbe stato impensabile qualche decennio fa. Tutto questo non ha nulla di casuale, ma anzi si mostra sempre più come una tendenza che si autoalimenta; allo stesso modo non ha nulla di casuale il successo, in crescita esponenziale, delle “fake news” e delle teorie del complotto.
La riprova della gravità del montante anti-intellettualismo è evidente in un fatto, a suo modo, eclatante: anche la scienza, che pur vive un momento di fulgore come mai si era visto prima, non è più così “credibile” come sarebbe lecito immaginare.
Cos’è accaduto? Si è innescato un meccanismo perverso, che ha fatto dell’ignoranza un “fattore di democrazia”, uno strumento egualitario, un “diritto” inalienabile per un singolo rinchiuso in se stesso come individuo “nemico” dell’altro; l’altro, il “diverso”, che ha storia, cultura o anche solo opinioni diverse dalle nostre, lungi dall’essere occasione di confronto, è un pericolo per la nostra fragilissima individualità, chiusa in se stessa.
Questa fragilità è inevitabile, perché l’uomo è un essere sociale (lo ζῷον πολιτικόν di Aristotele), è fatto per realizzarsi nella relazione con l’altro e non come individuo slegato dagli altri o, addirittura nemico degli altri. Se la persona si riduce a individuo “autonomo” – magari sempre “connesso” ma sempre più isolato, fisicamente e psicologicamente – vive inevitabilmente una vita sempre più sulla difensiva, e perciò non può che vedere chi gli sta di fronte come pericoloso, se non apertamente come nemico.
Nemico è allora anche, e per certi versi più degli altri, lo scienziato: questi è l’esperto che, come tale, può decidere sulla mia salute e sulla mia vita, e di cui devo sostanzialmente fidarmi, cosa impossibile una volta che io abbia come idolo la mia presunta “autonomia totale”. Se ripensiamo all’emergenza Covid vediamo come abbiano avuto grande presa, anche su persone intelligenti e non particolarmente ignoranti, i complottismi e le opinioni più strambe se non, spesso, deliranti.
Proprio l’emergenza Covid ha mostrato in modo evidente come i mezzi di comunicazione, a cominciare dalla TV, si siano perfettamente allineati a questa tendenza pseudo-democratica della ”ignoranza al potere”: non solo si dava, e si dà più che mai, spazio e credibilità alle opinioni di personaggi, più o meno noti, su argomenti di cui poco o nulla sanno, ma soprattutto si mettono le loro opinioni sullo stesso piano di quelle dei veri esperti, di chi da una vita studia e lavora su quei temi; questo in nome di una perversa e indecorosa “par condicio”. Il risultato è generare sistematicamente confusione nel pubblico, presentando come dibattiti quelli che spesso sono solo gazzarre funzionali a “fare audience”; ci sono conduttori di talk show televisivi, che fin dalla scelta degli invitati mostrano con ogni evidenza come il loro obiettivo non sia di far chiarezza, ma di creare la lite in studio.
Il meccanismo è purtroppo autoalimentante, al punto che anche chi è realmente esperto spesso non ha il coraggio di rifiutare un parere su questioni su cui non ha competenza; in questo modo si lascia trascinare a proporre quelle che inevitabilmente non possono che essere opinioni con scarsissimo fondamento, ben lontane appunto dalle sue competenze. Quante volte sentiamo critici d’arte parlare di storia, di scienza o di letteratura, oppure scienziati lanciarsi in disquisizioni filosofiche? Sempre, o quasi, la loro conoscenza nello specifico non è altro che quel poco che si ricordano dagli anni lontani del liceo; la loro stessa autorevolezza ne viene inevitabilmente screditata.
Con questa creazione sistematica di confusione la sfiducia del pubblico, specialmente di quello meno smaliziato, nei confronti degli esperti non può che crescere, con il risultato di sviluppare una vera e propria “cultura del sospetto” (tutti dicono sciocchezze, o falsità, e quindi meglio non fidarsi di nessuno), travestita per giunta da “senso critico”; si cade così in una situazione senza sbocco, in cui l’unico reale esito possibile è un giudizio che nasce dalla pura reattività emotiva, un giudizio “di pancia” appunto.
Si tratta di una realtà di cui dobbiamo prendere atto; è inutile e inconcludente lamentarsene o limitarsi a protestare: occorre ripartire dalla vera e sana capacità di giudizio critico, oggi più che mai da coltivare costantemente, in un mondo che per inerzia ci spinge alla pigrizia intellettuale, alla “stanchezza” della ragione, e che fa resistenza ai nostri tentativi di pensare in modo razionale e ragionevole. In questo senso era assolutamente profetico G. K. Chesterton quando, prefigurando un mondo che si rifiuta di riconoscere anche le evidenze più ovvie, scriveva: “Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.”
L’alternativa è soltanto quella di cedere ad una deriva che, da anti-intellettualistica, diventa inevitabilmente irrazionalistica; l’”homo technologicus” è disposto a tornate alle superstizioni e alle credenze più ridicole: secondo il 55° Rapporto Censis ci sarebbero circa 3,5 milioni di “terrapiattisti” in Italia! Sempre Chesterton scriveva: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto.”
Questa involuzione del pensiero contemporaneo non può lasciarci indifferenti nemmeno come credenti, perché anti-intellettualismo e irrazionalismo insidiano alla radice il cristianesimo, che fin dai primi Padri della Chiesa, greci e latini, si presentò come la fede nel Logos del Prologo di Giovanni; la traduzione latina (Verbum) non rende la ricchezza del concetto greco, che significa non solo parola, ma anche ragione e principio ordinatore del cosmo. È una fede che fin dagli inizi non amò essere definita “religione” (religio è “legame” a riti e credenze), ma si schierò “dalla parte dei filosofi”, perché come questi cercava la verità; il messaggio cristiano si fondava e si fonda sull’incontro con Gesù Cristo “via, verità e vita” proprio perché Logos. L’affermazione giovannea che “il Logos era di fronte a Dio, e Dio era il Logos” (ὁ λόγος ἦν πρός τόν θεὁν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος) è dirompente oggi come allora: non solo Dio si è fatto uomo, ma, in quanto Logos, è, in qualche modo misterioso e incomprensibile, legato alla nostra ragione, che non Gli è estranea; la nostra ragione è limitata, ma è sostanzialmente a Lui omogenea. Per questo fin dagli inizi il cristianesimo si è posto in stretta connessione con la ricerca filosofica, come possibilità di compimento sovrarazionale, nella fede, della ricerca razionale stessa. Anche questo significa affermare che siamo fatti “a immagine e somiglianza” di Dio.
Non è casuale se il cristianesimo ha generato fin dai suoi inizi una teologia come scienza, cioè come ricerca razionale, che non pretende certo di “comprendere” in senso stretto (cioè rinchiudere nei confini della ragione umana) il Mistero, ma ha come compito di giustificarlo razionalmente, fin dove è possibile. In questo la ricerca teologica segue l’invito pressante dell’apostolo Pietro: “siate sempre disposti a rendere ragione a chiunque lo chieda di ciò che c’è in voi per speranza e fede” (parati semper ad satisfactionem omni poscenti vos rationem de ea quae in vobis est spe et fide). Non a caso Joseph Ratzinger – Benedetto XVI ha chiaramente scritto che per essere teologo è necessaria una solida formazione filosofica.
Qui torniamo alla “cifra” della nostra epoca, perché anche in campo teologico il pensiero dominante è purtroppo tale e cioè “domina”: entrando con tutto il suo anti-intellettualismo in un campo, la teologia, che lo contraddice strutturalmente, esso non può che creare confusione. Se pensiamo ai recenti avvenimenti della Chiesa di Germania, ad esempio, vediamo come la confusione regni sovrana: una prassi senza dottrina, una pastorale che, per stare al passo coi tempi, non si faccia problema a snaturare Tradizione (con la maiuscola, la Traditio dei Padri) e Magistero, non va da nessuna parte; nel migliore dei casi fa cadere la fede cattolica in un “umanitarismo” generico e trasforma la Chiesa in una “onlus” come tante.
Grazie a Dio la Chiesa si regge sullo Spirito e vive di esso: non sono mancati e non mancano teologi che rifiutano questa rottura fra dottrina e vita, in particolare in ambito monastico, ma non solo; ne conosciamo bene almeno uno, padre Mauro Giuseppe Lepori, Abate Generale dei Cistercensi.
Ma anche noi, fedeli della Chiesa viva e sorretta dallo Spirito, dobbiamo essere coscienti del mondo in cui viviamo e della sottile e subdola influenza che su di noi ha il suo pensiero dominante: anche se lo combattiamo, non per questo possiamo pensare di esserne immuni, anzi… Spesso proprio il nostro giusto reagire ad esso fa sì che sia proprio il pensiero dominante a dettare la nostra “agenda”, ossia a farci considerare come priorità le “sue priorità”, anche quando non sono le nostre.
Per chi volesse approfondire questo tema nello specifico campo teologico, consiglio i link seguenti: