Testi delle relazioni
I nonni per il futuro della famiglia di oggi
Milano, 16 ottobre 2014
Anch’io intendo ribadire questo concetto. Io ho fatto anche l’alpino e in questi giorni, riflettendo, ho fatto un’analogia tra gli alpini e i nonni. Entrambi riscuotono simpatia. Gli alpini sono simpatici, hanno la penna sul cappello, ma, finita la grande giornata del raduno nazionale, nessuno ne parla più, mentre loro continuano la loro opera di solidarietà un po’ in tutto il mondo. La stessa cosa accade per i nonni: il 3 ottobre c’è stata la festa dei nonni – solo pochi se ne sono ricordati – e loro continuano a fare in silenzio il loro lavoro di baby sitter dei nipotini, continuano ad aiutare i figli, spesso anche economicamente; però ci si dimentica di loro. La nostra Associazione, come diceva il Presidente, è nata quasi per scherzo, ma via via abbiamo preso sempre più sul serio il fatto di essere nonni. I nonni hanno avuto nella storia umana una grande funzione e, malgrado tutto, continuano ad avere in questa società una grande funzione. E noi, tra le tante funzioni che i nonni svolgono, vogliamo sottolineare l’apporto che essi possono dare all’educazione e alla cultura. In questo senso abbiamo pensato a una Associazione, per creare un soggetto che, in un momento così delicato della nostra vita sociale, culturale e politica, sappia intervenire nel grande dibattito educativo presente in tutto il mondo e che mostra aspetti sempre più preoccupanti. Noi vogliamo essere un soggetto legittimato a intervenire in questo dibattito. In questo periodo qualcuno ci ha chiesto, a volte anche criticamente, perché ci siamo chiamati “Nonni 2.0”. Anche qui c’è un po’ di ironia : ho chiesto a mio figlio che mi ha spiegato che “2.0” è una terminologia moderna con cui si indica una cosa vecchia che si rinnova, che vuol essere sul campo di battaglia. Quindi abbiamo deciso di chiamarci “Nonni 2.0” per indicare che vogliamo essere protagonisti, che l’età non ci impedisce di essere presenti attivamente nel dibattito attuale nel nostro paese.
Vi ringraziamo di cuore per aver aderito a questa iniziativa, anche perché è un sì coraggioso, è aderire a una cosa nuova, un po’ sconosciuta. In questo senso ringraziamo molto la professoressa Eugenia Scabini, che ha dedicato quasi tutta la sua vita al tema della famiglia ed è un’autorità nel campo e il professor Mauro Magatti, Sociologo dell’Università Cattolica. Sarà poi presente anche l’Onorevole Massimiliano Salini eurodeputato, in arrivo da Bruxelles. Passo quindi la parola alla professoressa Scabini di cui conosciamo l’impegno e gli scritti su un tema che a noi sta molto a cuore.
Eugenia Scabini
E’ sempre piacevole fare le cose quando sono iniziali, c’è sempre una grazia nell’inizio: l’inizio è sempre una momento speciale e quindi mi piace partecipare a una cosa che inizia. Propongo qualche idea senza la preoccupazione di una proposta esaustiva; propongo idee che sono sicuramente frutto di quello che ho studiato, ma anche di quello che ho vissuto, perché mi pare che in questo contesto sia quello che posso più trasmettere.
Dico subito che il messaggio fondamentale che mi piacerebbe dare, e su cui si può un po’ riflettere, è che la condizione dell’essere nonni, se la si vive bene, aiuta a un pensiero lungo, aiuta a un pensiero per generazioni. A me parre che se mettiamo a fuoco questo aspetto possiamo dare un contributo importante, proprio perché il pensiero lungo, il pensiero per generazioni, è ciò che più oggi ci manca, ed è invece quello che più è richiesto in momenti di grandi trasformazioni, come quello attuale. Infatti, nei momenti di grandi trasformazioni si fa fatica a immaginare cosa succede nel futuro; invece riuscire a custodire e mantenere questa possibilità di un pensiero lungo, di un pensiero per generazioni, è una cosa importantissima.
Quando si genera un figlio è preponderante il potere di sé, cioè nel figlio uno istintivamente manifesta la propria potenza, è orgoglioso: il figlio è come testimone della capacità del genitore. E’ molto più difficile in genere, ma soprattutto nell’epoca odierna, vedere il figlio come un generato, ma un generato che in futuro diventerà un generante. Questa è una idea che la cultura odierna non dà, mentre la cultura passata l’aveva di più: il figlio porta avanti la storia famigliare. Nella società odierna accade quello che io chiamo rispecchiamento, cioè nel figlio si vede se stessi, più che qualcosa che va avanti ed è molto difficile che si possa anche intravvedere nel figlio il futuro generante, il futuro genitore. Il rapporto tra le generazioni dei genitori e dei figli, il rapporto cioè tra generazioni contigue, ha sempre una certa ambivalenza, e sempre l’ha avuta. Il rapporto fra generazioni precedenti e susseguenti non è mai stato un rapporto facile; la generazione precedente ha voluto dominare quella seguente a lungo, lasciandole poco spazio. Adesso noi abbiamo inventato una nuova modalità di intrappolamento, che è quella della “famiglia lunga”: un grande coinvolgimento, ma se volete è un’altra forma di controllo, di non permettere ai figli di andare avanti.
Quello che accade, o può accadere nella condizione dei nonni invece è qualcosa di diverso. Perché? Perché il nipote non l’hai fatto tu e questo è uno scacco, una sospensione della generatività. Margaret Mead, una famosa antropologa, nella sua biografia descrive la novità della nascita di sua nipote, dicendo di aver ricevuto per la prima volta nella vita una cosa importantissima per un atto non proprio: per un atto della figlia è diventata nonna. La novità che è sempre insita nella nascita (Annah Arendt ha scritto pagine meravigliose: “con la nascita un mondo nuovo viene alla luce”) a mio parere colpisce tutti. Quando nasce un figlio tutti sono presi dalla commozione di questa novità, ma è come se col figlio questa novità si esaurisse nel breve, intrappolata poi nell’idea che il figlio dovrebbe sempre dimostrare il valore di chi lo ha generato: tant’è che quando non lo dimostra i genitori vanno decisamente in crisi. Credo che nel “salto” che rappresenta l’avere un nipote, questo tipo di novità assuma una forma più perenne, più duratura che accompagna la crescita perché un generato non per merito tuo ne è un sigillo importante.
Ci si può chiedere: la mia funzione che non è più diretta, essendo indiretta, diventa solo sospesa?
Credo che due siano le alternative. La prima è vivere nella disperata ricerca di una continuità nel nipote: il nipote va avanti, tu muori ma lui sopravviverà. Erikson diceva “io sono ciò che mi sopravvive”. Rimane forte questo senso della continuità, ma anche questa continuità spesso ha bisogno di conferme; e in questi tempi di così grande cambiamento a volte non è così facile ritrovare continuità, nel senso di ritrovare le cose che sono state importanti per noi, esattamente come le vorremmo. Allora si segue una strada di continuità un po’ illusoria, spesso ripiombando in una situazione per così dire un po’ rancorosa, perché tutte le volte che si è delusi nel trovare delle cose così diverse, nelle quali non ci si riconosci immediatamente, rimane prevalente questa condizione di stagnazione.
Oppure si è spinti a trasformare il proprio tipo di generatività: quella che abitualmente viene chiamata “generatività sociale”. Attraverso il nipote, o per il nipote, uno può adoperarsi perché l’ambiente simbolico che lo accompagnerà, ambiente nel senso proprio dei significati, della direzione di cui tu è portatore, possa effettivamente rimanere e trasformarsi nel tempo. Chi lo trasformerà sarà la giovane generazione, ma perché lo trasformi occorre che questo patrimonio vi giunga e vi giunga vivo. Quando un patrimonio è vivo può anche avere i contorni non ben definiti, ma è pieno di vita di speranza. Come si può vedere un trasferimento di patrimonio? Un trasferimento negativo è una replica del patrimonio tal quale di generazione in generazione, ma questo non è il caso dei giorni nostri. Si può avere un trasferimento fatto di scissione, e questo è più tipico della nostra generazione, in cui c’è una cesura; la nuova generazione si vive come l’alba di un nuovo giorno, non si riconosce nessuna eredità, è come un nuovo inizio che comincia da zero (invece, si comincia da capo, ma non da zero): la generazione precedente quindi si sente inutile.
Oppure c’è una terza soluzione che potrei chiamare “rinnovamento delle origini”, cioè porgere qualche cosa perché le origini vengano rinnovate: origini, anche nel senso che uno è originato, è generato. Secondo me quello che proprio abbiamo perso è questo rapporto fra l’essere generati e l’essere generanti, che consente un pensiero per generazioni, o attraverso il salto di una generazione. Ecco allora il rinnovamento delle origini, questa generatività sociale, nel senso di adoperarsi in tutti modi (che anche questa Associazione potrà avere) per riuscire a mantenere e a rilanciare il patrimonio morale, simbolico, di significato, di direzione che ha comportato la nostra vita, cioè fare in modo che questo patrimonio circoli vivo.
Da questo punto di vista, una osservazione su questo tema del tramandare una memoria. Tramandare a me piace molto più di trasmettere, che dà l’idea di una meccanica; tra-mandare vuol dire mandare attraverso, far attraversare. Quando si manda attraverso si mette già in conto che ciò che si butta avanti si trasformi; alla fine non si desidera di riavere la stessa cosa, però si crede nel valore del tramandare. E’ molto diverso non credere che abbia valore questo tramandare, quindi essere su una posizione ferma, fissa, un po’ mortifera. Sul tema della memoria volevo leggervi una frase della Lumen Fidei che secondo me è bellissima. Quando parla della persona e dice: “La persona vive sempre in relazione, viene da altri, appartiene ad altri, nella sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale ed è legata ad altri che ci hanno preceduto. In primo luogo i nostri genitori che ci hanno dato la vita e il nome, il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà ci arrivano attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La coscienza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo ad una memoria più grande.”
Io trovo che se crediamo in questa funzione di tramandare, cioè di mantenere viva questa memoria più grande per le generazioni a venire, quindi non solo per il singolo nipote, siamo effettivamente ancora generativi, cioè consentiamo che chi viene dopo di noi possa essere nelle condizioni di vivere e di crescere umanamente.
Giuseppe Zola
Mi pare che Eugenia Scabini abbia centrato in maniera mirabile e sintetica il vero significato che ha il mettersi insieme da parte di nonni. Infatti, molto facilmente dimentichiamo quello che lei ha detto, per la distrazione cui ci obbliga la società in cui viviamo. Metterci insieme ha innanzitutto la funzione di farci memoria vicendevole, di aiutarci a non dimenticare questo tramandare, con tutte le responsabilità e i compiti che comporta. Quindi, l’Associazione non ha solo lo scopo di partecipare a battaglie che ci sono nella nostra società. Se solo servisse a tener viva in ciascuno di noi questa dimensione di cui ci ha detto Eugenia Scabini, avrebbe raggiunto il suo scopo.
Passiamo ora la parola al professor Mauro Magatti, che sottolineerà l’aspetto sociologico della presenza dei nonni oggi nel nostro Paese.
Mauro Magatti
Riprendo, declinando temi un po’ diversi, questa prospettiva di cui ha parlato Eugenia Scabini. Credo che sia una cosa strana il fatto che sia convocata questa riunione di persone di cui l’età media potrebbe essere 70 anni. E’ una cosa strana vedere un centinaio di persone di questa età che si trovano a parlare. Al tempo dei vostri genitori non sarebbe mai esistito. Voglio dire che tutti quanti, voi compresi, siamo dentro una metamorfosi potentissima. Sempre la storia ha prodotto cambiamenti, ma tra i cambiamenti che riguardano quest’epoca certamente ci sono i cambiamenti che riguardano la vita, il modo in cui si nasce, la capacità di curare le malattie, di risolvere tanti guai, di sostituire intere parti del corpo: si vive molto più a lungo.
Per cui fino alla generazione precedente il pensionamento coincideva realmente con una fase un po’ di chiusura della vita. Invece voi in questi anni, e sempre più chiaramente, vi trovate in mezzo a una cosa strana, perché uno va in pensione a 60/65 anni e poi c’è un pezzo significativo di vita in cui – certo non con le forze di quando aveva 25/30 anni – uno sta ragionevolmente bene in salute, è capace di iniziativa; inoltre, almeno alcuni hanno un discreto benessere economico. Tutto questo avviene senza una elaborazione collettiva: che significato ha un pensionato fuori dal mercato del lavoro? Abbiamo una intera fase della vita che rimane lì come sospesa e questo è un ritardo culturale enorme. Non pensate che debba essere un legislatore a chiarire che cos’è quella parte della vita, ma la sua elaborazione passerà dall’esperienza.
Siete dentro una cosa nuova, una sorta di esperimento storico e trovo che già questo sia una cosa abbastanza interessante, perché ci sarebbe bisogno di qualche esploratore, di qualcuno che apra strade nuove, naturalmente non da solo, meglio se lo fa in compagnia, se lo fa insieme. Fondamentalmente questa trasformazione che riguarda anche la vostra vita, anche questo tempo che state vivendo, nasce dalla combinazione di due aspetti. Uno è un aspetto culturale che riguarda quello che si chiama genericamente individualismo, questo modo di pensare ognuno la propria vita, chi più chi meno siamo tutti un po’ individualisti perché siamo in un’epoca profondamente segnata da questo. Ma l’individualismo sarebbe relativamente poco rilevante se non si associasse a un secondo aspetto, l’impatto della tecnica. E la combinazione tra la cultura individualistica e la capacità della tecnica di intervenire direttamente sulla vita umana, sul corpo umano, sulla nostra salute, sugli anni che ci rimangono da vivere, sul modo in cui nasciamo, sul modo in cui moriamo sta cambiando profondamente la nostra condizione umana. Questo bisogna averlo presente perché questa vostra nuova condizione ha bisogno di uomini e donne che ci stanno dentro, che la vivono, che la sperimentano e che depositano un’esperienza di ciò che succede.
Naturalmente voi siete tutte persone in buona salute, moderatamente attive e ragionevolmente benestanti. Cosa deve fare una persona della vostra età? Una brava persona fa il nonno. E in Italia c’è ancora una certa quota di persone, di uomini e donne in pensione, che aiutano. Ma certamente siete diventati dei consumatori; il target delle persone in pensione è importante, perché la pensione, per quanto non sia un fiume di soldi, è abbastanza stabile; ci si concede, certo positivamente, una serie di consumi, non esagerati, ma viaggi e cose che creano benessere. Viene proposta come fase del consumo, in cui c’è questo sentimento un po’ di inutilità, perché nasce una domanda: cosa sto al mondo a fare? Al lavoro non ci vado più, i figli sono cresciuti: cosa sono qui a fare? Addirittura in qualche caso, se permettete, c’è un senso di vergogna, soprattutto quando la salute comincia a non funzionare più bene, e perché nella nostra cultura un implicito è che bisogna funzionare. Perché se tu non performi, se non sei all’altezza, se non giri come tutta la macchina sociale ti richiede di girare, sembra che ti debba un po’ vergognare. Quindi sei consumatore e c’è questa situazione un po’ di fragilità, un po’ di inutilità che ti tiene un po’ borderline.
Il terzo elemento che richiamerei, che è rilevante nella condizione degli anziani, è che c’è il rischio della cronicità, un altro grande problema oltre quello, citato prima, della fragilità economica. Voi sapete che il problema della cronicità, che si ricollega alla questione della tecnica, è un problema gigantesco: noi viviamo molto di più, ma spesso la nostra vita si prolunga anche grazie alla tecnologia in maniera a volte quasi indefinita. E questo pone questioni sia etiche, sia morali, sia economiche, sia sociali. Sto richiamando aspetti che nella nostra cultura sono presenti relativamente a questa fase: si aiuta un po’ la famiglia, c’è l’elemento del consumo, c’è l’elemento della fragilità sia economica sia esistenziale, c’è questo elemento della cronicità e c’è l’elemento della solitudine e della fatica di dare senso a questa condizione. Quindi non è semplicissimo attraversare questa stagione. Per me sociologo, ed è il punto da cui sono partito, c’è una lunghissima fase della vita che sta sulle spalle di ciascuno, come se fosse un problema puramente individuale. E chiaramente non si può dare una risposta solo individuale. Allora dove porta questo discorso?
E’ sufficiente fare i nonni nel senso letterale del termine? Aiutare i propri figli, le figlie, i nipoti, dare una mano. Questa naturalmente è una cosa molto positiva e molto bella. Mi ricordo, io sono il quarto figlio e la mia mamma ha sempre aiutato i miei fratelli e quando sono arrivato io le forze che aveva per i miei figli erano abbastanza poche. Invece mia suocera era una nonna moderna, una nonna efficientissima, se c’era un’emergenza potevamo anche chiamarla, ma l’idea fondamentale era che lei aveva una sua vita. Io non so se siete del primo tipo, cioè che vi sfinite, o del secondo tipo, cioè a chiamata, o qualcosa di mezzo. La questione dei nonni è sempre delicata, perché certo l’aiuto materiale è prezioso e poi sappiamo bene che i rapporti con la famiglia dei figli – il ruolo dei nonni – sono un punto delicato. Questo per dire che fare i nonni, per quanto sia prezioso e importante e generativamente anche qualificante, come ha detto prima Eugenia Scabini, non può essere pienamente la risposta alla questione che dicevo prima: questa lunga fase della vita in cui non si sa bene chi si è.
Una seconda ipotesi potrebbe essere che i nonni nella nostra tradizione sono i saggi. La saggezza indubbia di cui siamo portatori è dovuta all’esperienza della nostra vita, che ci rende saggi: se non abbiamo vissuto invano, qualcosa la vita ci ha insegnato. Ma il problema – adesso sto un po’ provocando – è che la velocità del cambiamento del modo in cui si vive, degli strumenti che si usano, dell’organizzazione della vita, è tale per cui abbiamo imparato che siamo saggi non perché siamo intelligenti, ma perché abbiamo traversato la vita. Ci accorgiamo che, almeno di primo acchito, questa saggezza quasi non serve più; questa è un’esperienza che le generazioni precedenti non avevano. Questo è un problema. La questione della tecnica incide anche da questo punto di vista nelle generazioni: cosa posso insegnare ai nipoti o ai figli? Sembra che quello che so sia fuori corso. Allora la questione della saggezza, che non bisogna dimenticare che c’è, non è certo facilmente riconosciuta e non è facilmente spendibile. E questo è un problema, è una difficoltà, perché si rischia di non riuscire nemmeno a dialogare. Quindi il tema del trasferire la propria saggezza, la propria esperienza di vita rimane, però rimane un punto un po’ problematico. Se fare i nonni può essere importante e bello, è un po’ pericoloso puntare tutte le carte su questo sia per i vostri figli sia per voi.
Allora io vi propongo in conclusione tre spunti positivi. Vi leggo questa citazione da un libro bellissimo: “Il sabato nella cultura ebraica (il sabato, cioè l’interruzione del lavoro) ricorda di acconsentire al vuoto che buca lo svolgimento del tempo, per aprire l’essere a quello che fonda aldilà di ogni presa”.
Cosa vuol dire questa frase filosofica che sembra impenetrabile? Il sabato nella cultura ebraica significa questo: non solo il riposo fisico, ma per quanto ci si affanni nella vita, si sia bravi, si corra, si faccia, per quanto si realizzi, c’è qualche cosa che non si prende, non si possiede, non si controlla, c’è qualche cosa che sfugge. Nella cultura ebraica Dio non è neppure rappresentato, in qualche modo non se ne sa niente, viene sottolineato questo aspetto del vuoto, che per noi cristiani è il mistero. Di Dio ne abbiamo traccia attraverso Gesù Cristo, ma nessuno pensa di sapere tutto di Dio.
Perché cito questa frase? Perché credo che l’età che state vivendo, in un certo senso “inutile”, è il luogo della verità di questo tempo. Come dire è questa gratuità in questo vuoto, se mi permettete, in una società in cui tutto deve funzionare, in cui tutto è utilità, in cui tutto deve servire a qualche cosa, in cui tutto deve soddisfare un bisogno, un godimento; ecco voi siete come l’espressione di questo sabato, di questa gratuità, di questa “specie di inutilità” che è l’umano, perché senza questo tempo, senza questo spazio diventiamo come delle macchine, diventiamo noi delle macchine, che è il rischio della società contemporanea. Non c’è più tempo in realtà per questo spazio dell’umano. Io allora credo che nella nostra società si vada creando questo grande serbatoio di vita, che al momento non abbiamo assolutamente riempito, in cui ci sono letteralmente milioni di uomini e donne, che siete voi, che si trovano in questa strana condizione del sabato, in cui fanno l’esperienza di essere sospesi, di essere fragili, di non servire a niente. Ma guardate che questo è un luogo profetico. Non tanto rispetto ai vostri figli – anche rispetto ai vostri figli – ma soprattutto rispetto ai vostri nipoti. Si dice sempre: ci vuole il testimone. Il testimone è quello che ha visto qualcosa.
In questo “spazio del sabato” in cui vi trovate, siete chiamati a essere testimoni. Ma essere testimoni non significa fare discorsi retorici, ma limitarsi a dire ciò che avete visto. Essere testimoni significa in qualche momento, in qualche occasione, laddove si creano le condizioni, delle situazioni, dire con serenità, semplicità e autenticità, quello che si è visto nella vita. Ciò significa giocare in positivo questa condizione di essere sospesi nel vuoto. Questa secondo me è una chiamata profetica, straordinaria, per chi è il nonno oggi.
Mio padre, che adesso ha 93 anni, da quando è andato in pensione è rinato, ma non perché non gli piaceva il suo lavoro. Dà una testimonianza, ma senza usare le parole, a me, ai miei fratelli e ai suoi nipoti, impressionante. Perché è capace di abitare col vuoto di cui noi contemporanei abbiamo un panico pazzesco, perché sembra che dobbiamo continuamente riempire tutto. Vi posso testimoniare che vedo mio padre che nella sua semplicità umana cresce in maniera così incredibile e senza che lui se ne accorga è una lezione impressionante per tutti noi.
Ancora due cose e chiudo. Una è il patrimonio, patrimonio simbolico, ma anche patrimonio economico e abitativo. In questo momento vi chiedo di mettere in gioco, nelle forme che volete, i vostri patrimoni. Parlo seriamente. E’ stata fatta una ricerca in Lombardia per cui i metri quadri disponibili a un settantenne oggi sono mediamente il doppio dei metri quadri disponibili a un trentacinquenne. La spiegazione è molto semplice, le case sono grandi, i figli sono usciti, per cui ci sono tante persone anziane che hanno a disposizione tanti metri quadri. Se la vostra generazione, nelle forme che si inventerà, non riuscirà a mobilitare sensatamente un patrimonio che ha costruito, mancherà al momento e alla sfida di tutti. Quindi credo che questo tema di come si possa e si debba rimettere in gioco questo patrimonio, sia una grande questione oggi e non può essere solo una cosa che uno fa col proprio figlio. Si possono immaginare anche forme collettive, comunitarie, organizzate.
L’ultimissimo aspetto di prospettiva è che riguardo alle persone che vanno in pensione – stiamo parlando dunque spesso di una fase d’età che spesso è anche abbastanza lunga : 10, 20, 25 anni – bisogna inventare forme dell’abitare nuove, bisogna inventare forme dell’abitare diverse, in cui siano recuperate forme di socialità diverse, forme di preghiera, forme di accompagnamento inedite, che in un’epoca precedente non erano pensabili e che invece oggi sono pensabili e che qualcuno oggi deve cominciare a fare. Non si può vivere un tempo così lungo ognuno nel proprio appartamento, che prima serviva per una certa organizzazione della vita. Bisogna attivare forme in cui la socialità scorra diversamente. Io ho la grande fortuna di vivere in una grande casa, dove ospitiamo anche degli stranieri, che ci è stata data da un ordine religioso. La Chiesa cattolica ha una marea di edifici che devono essere rimessi in gioco per creare nuove forme di vita per le famiglie più giovani o per delle persone anziane. E questa cosa bisogna chiederla e bisogna avviarla nella forma della sperimentazione, perché anche il modo fisico in cui viviamo incide alla fine sul nostro benessere, su quello che riusciamo a fare per noi e per gli altri.
Giuseppe Zola
L’orizzonte del nostro impegno si allarga sempre di più. L’intervento di Mauro Magatti è una conferma della bontà dell’idea di metterci insieme e scambiarci idee per questo e di collaborare su tutte le cose che abbiamo sentito. All’Onorevole Massimiliano Salini chiediamo cosa ci aspetta dall’Europa su quello cui teniamo, che è la famiglia. Chiediamo cosa ci aspetta anche per essere pronti in tempo a dire la nostra da nonni saggi, come siamo stati definiti.
Massimiliano Salini
La prima considerazione riguarda la modalità con cui anche giuridicamente l’Europa può occuparsi di famiglia. La situazione è molto deludente nel senso che l’Europa non si occupa di famiglia, per diverse ragioni evidentemente di carattere culturale, che poi sono state trasformate in ragioni di carattere tecnico. Ma l’origine di questa scelta è evidentemente di carattere culturale. Il Trattato di Roma è un trattato molto esigente che si pone l’obiettivo di determinare effetti di carattere sociale attraverso l’unione economica. La sua origine è economica, ma fin da subito il Trattato decise di non occuparsi di questioni aventi rilevanza economica per non scontentare gli stati membri: queste questioni sono le politiche sociali e le politiche fiscali, di cui l’Europa si occupa solo per via indiretta, in quanto sono lasciate alla competenza autonoma degli Strati membri. Questo fattore è molto importante, perché da un certo punto di vista ha il suo fascino: a noi non dispiace che su certe questioni sia lasciata agli Stati la libertà di decidere, ma in realtà, nel concreto, la scelta non è frutto di un amore per la libertà dei popoli. Lo si vede guardando al percorso molto accidentato, e conclusosi con un fallimento, che l’Europa ha fatto nel tentativo di darsi una Costituzione. Il progetto costituzionale europeo (2003 – 04) partito con la volontà di riconoscere le radici giudaico cristiane del progetto europeo, fallì innanzitutto perché non ci fu la capacità di mantenere questo riconoscimento, ma fallì anche perché Francia e Paesi Bassi votarono contro, non accettando una Costituzione Europea. Si virò sul tentativo più ridotto di una Convenzione dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dove, nel preambolo, si stabilì che l’uomo è al centro del progetto europeo, ma non si disse a quale concetto di uomo fa riferimento questa Convenzione e soprattutto si decise di non citare minimamente la famiglia.
Nel suo impianto costituzionale quindi l’Europa non parla di famiglia e quindi decide che la famiglia non ha rango costituzionale. Negli elementi che costituiscono i pilastri su cui si costruisce la coscienza del popolo europeo, che si traducono in norme che incidono sulla vita di tutti i cittadini, la famiglia non è considerata, quindi non ha rango. Gli effetti sono enormi. Alcuni numeri. Circa il 20 % della popolazione supera i 65 anni e nei prossimi decenni questa percentuale è destinata ad aumentare e questo ha conseguenze rilevanti per tante ragioni di cui la prima riguarda il tema della pensioni. Il metodo di pagamento della pensioni è distributivo; in Europa, tranne i Paesi Anglosassoni, le pensioni sono pagate con i flussi generati dai non pensionati e dal momento che i giovani sono sempre di meno, sono sempre meno i soldi per pagare le pensioni. Inoltre, nei prossimi 10 anni i 2/3 dei nuovi posti di lavoro non saranno nuovi posti di lavoro veri, ma saranno determinati da rimpiazzi, cioè da subentri in sostituzione di pensionati o di defunti. Mettendo insieme la crescita dell’età media e quanto appena detto, si ha che la cosa che colpisce di più è che la soluzione di allungare l’età pensionabile è un errore incredibile, che tra l’altro non considera il fatto che il pensionato non è una persona inutile. Inoltre, con pochi posti di lavoro a causa della crisi e l’aumento dell’età pensionabile si impedisce di fatto ai giovani di entrare nel mondo del lavoro. In conclusione, il pensionato non fa il nonno, i giovani non lavorano e i soldi non ci sono.
Questo schema nasce anche dall’illusione di concepire le politiche di sviluppo economico non considerando la famiglia come base di riferimento. Se si guardasse alla famiglia si avrebbero soluzioni e proposte politiche molto più interessanti.
Dire che l’uomo è alla base dell’idea comunitaria e non dire cos’è l’uomo, parlare di uomo senza parlare di famiglia, come accade in Europa, è l’abbandono del lavoro di sintesi che la politica deve fare: le conseguenze sociali di questo sono evidenti.
Altro esempio è il tema dell’alternanza famiglia-lavoro (il 2014 per l’Europa è l’anno della conciliazione famiglia-lavoro); il criterio su cui viene valutata questa conciliazione è di tipo quantitativo, cioè la percentuale di donne attive nel mondo del lavoro. E questo è un errore, perché il punto di conciliazione dovrebbe essere un tipo di rapporto sussidiario e non assistenziale; sussidiario tra famiglia e azienda che valorizzi l’azienda e valorizzi la famiglia. Guardare solo quante donne sono al lavoro vuol dire valorizzare solo l’azienda, trascurando la famiglia. Deve esserci una relazione biunivoca tra i due fenomeni di cui si occupa la pretesa politica di conciliazione; ci sono modalità che garantiscono un rapporto virtuoso tra chi produce e chi “produce” diversamente in famiglia.
Questi esempi documentano quanto grave sia il fatto che la famiglia non sia mai entrata nel novero delle politiche di cui si occupa l’Unione Europea.
E’ difficile pensare di superare gli effetti sociali della crisi economica rinunciando a condividere una politica anche in ambito sociale dal punto di vista comunitario. Per affrontare insieme questo punto ci vuole un’idea, ma sperare di poter condividere una politica sociale a livello europeo senza aver deciso cos’è l’uomo e cos’è la famiglia è impossibile. Il punto è arrivare a questo con correttezza: se oggi l’Europa (ma anche l’Italia) dovesse mettere ai voti cos’è la famiglia, diventerebbe legge il contrario di quello che noi vogliamo. Nell’agire politico dobbiamo quindi decidere se non mettere ai voti la verità significa stare zitti e dobbiamo inoltre capire come parlare, rispettando le dinamiche della cautela politica.