IL RITORNO DI ONESIMO

Nonni e Catechismo Riflessioni

Onesimo stava tornando. Aveva compiuto un lungo viaggio: da Roma, per nave, costeggiando il Mediterraneo fino all’Asia Minore; poi si era addentrato in quel territorio dirigendosi verso la Frigia con tutti i mezzi disponibili per le sue povere tasche, accettando, dove possibile, passaggi sui carri di merci, affittando asinelli, o semplicemente procedendo a piedi. Ora guardava il paesaggio intorno, fatto di aspre rupi che si elevavano improvvise su prati verdi, con qua e là il verde più scuro dei boschi; quelle rupi scoscese, intervallate sull’altopiano, creavano uno strano effetto, quasi fossero pilastri di uno straordinario labirinto.

Onesimo stava tornando. Ma dove? Sorrise tra sé a questo pensiero; in un certo senso stava tornando dove tutto era iniziato: alla casa di Appia e di Filemone nella città di Colossi. Lui era cresciuto lì, acquistato come schiavo da questa famiglia quando era poco più che un bambino, e da loro aveva ricevuto il suo nome attuale: Onesimo [in greco “utile”]. Per lungo tempo questo nome gli era sembrato assurdo: “Utile”, lui, uno schiavo… un oggetto destinato ad essere utile al padrone; questa sarebbe stato il suo ruolo nella vita.
I suoi compagni di schiavitù avevano un bel dirgli: “Sei stato fortunato ad essere comprato da questa famiglia; sono brave persone, ti tratteranno bene, a differenza di tanti altri padroni!”. Ma questi discorsi non facevano che acuire in lui un disagio che con gli anni si trasformò in una rabbia vera e propria, sempre crescente. Fin da quando era un ragazzino gli altri schiavi lo chiamavano “il piccolo ribelle”. In realtà lui desiderava solo essere libero: libero di correre per i prati e di sdraiarsi a guardare le nuvole che –  come lui – amavano correre lassù nel cielo… ma soprattutto libero di essere se stesso, di crescere in un mondo dove finalmente non ci fossero più schiavi, dove fosse possibile vivere nella libertà e nella giustizia… Sogni di un adolescente – avrebbero detto i suoi compagni –  che però gli bruciavano il cuore, trasformandosi progressivamente in odio verso tutto e tutti, lasciandolo solo e disperato.
Quando aveva poco più di vent’anni, la casa di Appia e Filemone era diventata un luogo di ritrovo per un gruppo di persone un po’ strane: li chiamavano “cristiani”. Si riunivano lì perché quella era una casa grande e accogliente; pregavano il loro Dio, parlavano insieme, e facevano anche altre cose di cui Onesimo si disinteressava proprio: per lui erano solo un aggravio di lavoro: pavimenti in più da pulire, persone in più da servire… Tra questi però un giorno si presentò un uomo che attirò la sua attenzione. Non aveva un aspetto particolarmente affascinante: né bello né brutto, non aitante nel fisico, con pochi capelli (volendo si sarebbe potuto definire un po’ pelato!) e con l’abbigliamento tipico, semplice e un po’ logoro, di chi viaggia molto; eppure le persone, a partire dai suoi padroni, sembravano rispettarlo molto: lo chiamavano Paolo di Tarso.  A Onesimo i discorsi dei cristiani non interessavano, ma stava passando davanti alla porta in cui si riunivano quando udì quell’uomo dire:
“Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”.
“Non c’è più né schiavo né libero.” Queste parole folgorarono Onesimo: si fermò di colpo, dimenticando ogni altra incombenza. “Come può esserci un mondo simile? E come arrivarci o come costruirlo?” e mentre confusamente formulava queste domande, sentiva nascere in sé qualcosa a cui da lungo tempo aveva chiuso il cuore: la speranza di un mondo nuovo. Era ancora lì, quasi stordito, quanto sentì che Paolo, continuando il suo discorso, aggiungeva:
“Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore”

Onesimo si sentì impietrire: “Essere in tutto docili ai padroni?! Ma questa diventa una
schiavitù volontaria! Nulla è peggio di uno schiavo che non vuole più nemmeno essere liberato:
questa è la morte di tutto!” E il seme della speranza che stava appena germogliando nel suo
cuore si raggelò all’istante.

Paolo tornò qualche altra volta nella casa di Filemone, ma Onesimo si rifiutava di ascoltarlo ancora, anzi lo sfuggiva il più possibile. Passarono i mesi, ma nel suo cuore il solo sentimento che l’odio era in grado di generare era la voglia di ribellarsi a qualsiasi costo, di scappare il più lontano possibile da un luogo dove gli sembrava che nessuno più volesse essere libero. Finché una notte fuggì davvero, impadronendosi, a mo’ di risarcimento, del denaro che Filemone teneva in una cassetta nel suo studio. Vagabondò a lungo, senza una meta precisa in quello stesso paese che ora stava riattraversando, ma lì era molto grande il rischio di essere riconosciuto e condannato a morte: era questa la pena per gli schiavi che fuggivano. Perciò alla fine decise di dirigersi a Roma; nella grande metropoli gli sarebbe riuscito più facilmente di ricostruirsi una vita: nessuno lo conosceva e avrebbe potuto trovare un lavoro… magari farsi una famiglia. Sì, quella era la scelta giusta.

Onesimo, mentre tornava a Colossi, ricordava molto bene quei primi mesi a Roma: la fatica di ambientarsi in una città così grande, la ricerca di un lavoro, la necessità di non farsi riconoscere come schiavo… ma soprattutto ripensando a quel periodo, ricordava la sua insoddisfazione, l’inquietudine: adesso era libero – almeno per quanto ne sapevano le persone con cui aveva a che fare – e per la prima volta era nella condizione di organizzarsi la sua vita. Eppure gli mancava qualcosa; c’era ancora tanta ingiustizia intorno a lui, nei quartieri poveri della grande città in cui si era inserito, e tanta sofferenza: non era quello il mondo nuovo che aveva cercato. Poi, un giorno, un piccolo gruppo di cristiani lo avvicinò. Non conoscevano la sua storia: di lui sapevano solo che cercava un lavoro, e loro ne avevano uno da offrigli. Un loro confratello, gli spiegarono, era prigioniero; ma, essendo un cittadino romano, aveva la possibilità di attendere il processo in una casa privata. Certo era costretto a rimanere sempre sorvegliato a vista da una guardia e spesso era incatenato… ma, insomma: meglio che stare in una delle terribili prigioni romane! Qui poteva leggere, scrivere, incontrare persone, ma aveva bisogno di qualcuno che lo accudisse, preparandogli da mangiare e occupandosi concretamente di lui. Era un lavoro più che fattibile per Onesimo: accettò, si accordò per la paga e si avviò verso la casa che gli era stata indicata. Non sapeva cosa aspettarsi, oltre alla certezza di una paga garantita per un periodo abbastanza lungo; entrò dunque senza particolari preoccupazioni in una stanzetta illuminata da una piccola finestra e poveramente arredata: c’erano soltanto una brandina, uno sgabello, un tavolo con una lucerna e l’occorrente per scrivere, un bacile con l’acqua, un piccolo baule in un angolo e qualche semplice stoviglia di terracotta su una mensola. Certo però non si aspettava di trovarsi di fronte, nella penombra, quel Paolo di Tarso che aveva incontrato a Colossi.

Onesimo ricordava bene quel primo incontro: Paolo era seduto sulla brandina. Aveva rivolto lo sguardo verso di lui per salutarlo con una formula usuale: “Il Signore sia con te…” ma poi si era fermato e, socchiudendo gli occhi, aveva aggiunto: “Ti conosco? Mi sembra di averti già visto da qualche parte”
“Sì” gli aveva risposto seccamente Onesimo.
“E dove?” aggiunse Paolo, incuriosito da quella reticenza.
Onesimo allora aveva deciso di sfidarlo, rischiando il tutto per tutto. “A Colossi. Ero uno schiavo della casa di Filemone”.
“Sì, ora ricordo, ti ho intravisto qualche volta quando ero da Appia. I tuoi padroni dunque ti hanno liberato?”
“No – il tono di sfida in Onesimo era stato evidentissimo – Sono scappato, derubando Filemone del denaro che aveva in casa”.
“Ah ecco! – e dopo una piccola pausa Paolo aveva aggiunto – E perché sei fuggito?”
Questa domanda Onesimo non se l’era aspettata proprio; ma, deciso a portare la sfida fino in fondo, aveva replicato, tutto d’un fiato:
“Perché volevo essere libero! Perché sono un essere umano, non una cosa, e non è giusto che un padrone possa decidere della mia vita. Non è giusto!” aveva quasi urlato le ultime parole, con un grido liberatorio.
Paolo aveva annuito silenziosamente; poi sorridendo aveva confermato:
“Hai ragione: non è giusto”.
Onesimo a sua volta era avanzato di un passo verso Paolo, puntandogli contro un dito, quasi minacciandolo:
“Non mi prendere in giro! Ti ho sentito con queste mie orecchie dire che gli schiavi devono continuare a servire i loro padroni senza ribellarsi! Questo per me significa arrendersi alla schiavitù, addormentare persino il desiderio di libertà!”
Ancora una volta Paolo aveva annuito in silenzio; poi aveva continuato;
“Credo che tu abbia colto solo alcune delle mie parole, e così è facile fraintendere – lo aveva guardato, a quel punto, come aspettando il suo permesso per continuare. Di fronte al suo silenzio: – “Sai perché ho detto quelle frasi?” – ancora una volta aveva atteso una risposta che non era venuta. Tuttavia Onesimo ora, almeno parzialmente, si sentiva più disposto ad ascoltare – Io stavo dicendo che tutte le differenze (uomo o donna, libero o schiavo, ebreo o non ebreo) davanti al Signore non hanno alcun significato, perché Lui ci ama tutti nello stesso modo; e se noi facciamo nostro il Suo modo di amare, anche per noi le differenze non hanno più alcun senso, se non quello che ci dà la possibilità di scoprire che sono un’occasione di crescita e di arricchimento, non di ingiustizia!
“Ma come può essere? – Onesimo era rimasto incredulo, ma sentiva che per lui era assolutamente necessario ascoltare fino in fondo le parole di quell’uomo: gli sembrava di intravvedere appena (ma intravvedere!) una possibile via d’uscita a quella inquietudine che lo imprigionava nell’insoddisfazione e nella ribellione perenne.
“Figlio mio… mi permetti di chiamarti così?… figlio mio,  il Signore Gesù ama tutti noi, e se noi impariamo ad amarci come ci ama Lui, se diventiamo capaci di perdonare noi stessi e gli altri come fa Lui, se davvero siamo attenti ai bisogni di chi abbiamo intorno e siamo capaci di aiutarlo a ritrovare la strada verso il Signore, allora queste norme non hanno più significato: sono cose destinate a scomparire con l’uso, perché sono regole e insegnamenti di uomini, mentre la nostra regola deve essere solo quella della carità, cioè dell’amore che Dio ha per noi e che noi possiamo avere per tutti, imparando da Lui”.
“Secondo questo tuo ragionamento, non è importante lottare contro le ingiustizie… basterebbe aspettare passivamente che le cose cambino da sole, col tempo… Ma questa mia ansia di libertà, di giustizia… un’ansia che mi brucia il cuore… che senso ha allora?!”
“Certo che ha senso! Dio, che è nostro Padre, ci ha creati a sua immagine; e Lui, che è libertà, verità, giustizia infinita, ha messo nel cuore di tutti gli uomini questo desiderio di libertà e di giustizia. Coltivalo e tienilo ben desto, cercando il più possibile di cambiare la realtà su cui puoi intervenire; ma non perdere di vista il fatto che ciò che davvero cambia il mondo è l’amore di Dio, non le regole degli uomini”.
Onesimo si era sentito totalmente disorientato dalle parole di Paolo; quella sera gli aveva preparato la cena, ma poi era rimasto con lui dividendo il pasto e tempestandolo di domande e di obiezioni, nello sforzo di comprendere le sue parole e di lasciarsi compenetrare dal messaggio straordinario che trasmettevano.

Era pomeriggio inoltrato e Onesimo era stanco, perché stava camminando dal primo mattino; ma ormai era vicino alla meta e aveva fretta di arrivare. Guardava il paesaggio intorno che gli era familiare e avanzava senza alcuna paura di perdere la strada, anche se la sua mente era molto lontana da lì, immersa nei ricordi. Quanto tempo era rimasto insieme a Paolo! A servirlo, sì, ma soprattutto ad assorbire le sue parole, facendo tesoro del messaggio di Gesù che Paolo gli faceva percepire con tanta vivezza.
“Eppure tu non hai conosciuto direttamente Gesù; come puoi comprenderlo così bene?!” – gli aveva chiesto una volta.
“Perché è Lui che ha voluto conoscere me, là, sulla via da Gerusalemme a Damasco: io portavo nella comunità ebraica di quella città le indicazioni del Sinedrio di Gerusalemme sulla necessità di perseguitare i cristiani. Ero ben convinto che fossero una setta pericolosa, che rischiava di distruggere le idee in cui credevo… Ma pensa in cosa credevo mai! – aveva sospirato Paolo: ma poi  gli era quasi scappata una risatina.
“Perché ti viene da ridere?” gli aveva chiesto Onesimo.
“Sai, a volte mi viene in mente la faccia che farebbe il mio vecchio maestro nel Sinedrio, Gamaliele, se mi vedesse adesso! Molto più saggio di me, lui aveva capito subito che i disegni di Dio, per quanto ci possano apparire incomprensibili e … come dire… folli! Beh, invece sono più intelligenti e più forti di qualunque progetto umano. Pensa che tipo era Gamaliele: una volta, mentre si discuteva nel Sinedrio dei provvedimenti da prendere nei confronti dei Cristiani, lui si era alzato e aveva detto: ‘Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!’. Ma io non condividevo le sue sagge parole; ero convinto di aver ragione, perché l’interpretazione che io davo della volontà di Dio era quella giusta, quella confermata dalle persone che io giudicavo più autorevoli e da quello che io avevo capito. Le mie idee erano per me la cosa più importante”.
A questo punto Paolo era diventato di colpo serio, impallidendo: “Già! – aveva proseguito, scandendo ogni parola – le mie idee erano più importanti perfino delle persone! Ho assistito senza fare una piega alla lapidazione del povero Stefano, convinto che le mie convinzioni fossero giuste… E malgrado tutto questo Gesù ha voluto apparirmi là, sulla via per Damasco. Lui ha fatto di me davvero un uomo nuovo, diverso: ha colto in me il bene che nemmeno sapevo di avere, e mi è sempre vicino, nella preghiera, nella comunione, nel richiamo alla verità che incontro nei fratelli. E così mi aiuta a mettere da parte tutto il male che c’è in me: la presunzione, il limite, i difetti… tutto questo c’è ancora, ma nello stesso tempo non conta più… certo continuo, come tutti (è la conseguenza del peccato originale!) a non fare il bene che voglio e a fare il male che non voglio, ma non è più questo che mi definisce, perché il Signore è risorto e, vincendo la morte, ha vinto tutto il male, anche il mio male. Questo è stato per me il battesimo: morire in Cristo per poi risorgere in Lui, trasformato dal Suo amore in un uomo nuovo! E pensare che a battezzarmi è stato Anania, proprio uno dei capi di quella comunità cristiana di Damasco che avrei dovuto distruggere…”
“Non sarà stato facile per te, con la tua storia, farti accettare dai cristiani!!”
“Per niente – aveva confermato Paolo sorridendo – Pensa che una volta, all’inizio della mia predicazione, sono dovuto scappare da una comunità di cristiani facendomi calare in una cesta fuori dalle mura della città, di notte! – e ridacchiando soggiunse – A volte ho l’impressione che Pietro, Giacomo e gli altri mi abbiano spedito in giro per il mondo per non avermi tra i piedi! Ma credo che avessero ragione loro: era più facile, per me, rivolgermi agli abitanti di Colossi, o di Corinto o di Roma che non a quelli di Gerusalemme… perciò è andata bene così! O meglio; si sono lasciati ispirare dallo Spirito Santo! Del resto sai che anche Pietro adesso è qui a Roma”.
E così anche Onesimo si era fatto battezzare da Paolo; nella loro frequentazione semplice e quotidiana, era cresciuta un’amicizia profonda. Soprattutto Paolo aveva sempre aiutato Onesimo a riconoscere che ogni momento della vita era come la pagina di un libro da ricollocare nel giusto ordine di capitoli perché potesse trovare il suo senso.
“Bisogna ricapitolare tutto a partire da Cristo! – quante volte Paolo glielo aveva ripetuto! – Solo così puoi riconoscere i doni del Signore e trovare il tuo posto nel mondo e la tua pace”.

Mentre camminava verso la meta ormai molto vicina, Onesimo sentiva una grande nostalgia nel cuore: gli mancava – e davvero tanto – la compagnia di Paolo: ma l’apostolo sapeva bene che a Roma la condanna per lui era imminente e aveva deciso che Onesimo doveva partire, compiere un ultimo viaggio per trovarsi finalmente in pace con se stesso: doveva tornare da Filemone, farsi liberare da lui per essere in regola anche con la legge degli uomini e riconciliarsi con il suo passato.
Ora Onesimo era arrivato alla sua meta; aveva con sé una lettera di Paolo per Filemone, che gli spiegava la situazione e lo pregava di essere proprio lui, il suo antico padrone, a liberarlo e a introdurlo come fratello in Cristo nella comunità di Colossi; ma non aveva nessuna certezza su come Filemone lo avrebbe accolto e ogni suo nervo era teso. Entrò nella casa da cui era fuggito, accolto dagli sguardi stupiti dei servi che lo avevano riconosciuto.  Si avviò verso il giardino interno, dove sapeva che in quell’ora Filemone era solito riposare in attesa della cena. Filemone, scorgendolo, si alzò e lo guardò; nei suoi occhi c’era un’espressione di gioiosa meraviglia. Onesimo, in piedi, consegnò al vecchio padrone la lettera di Paolo: lui la lesse fino in fondo, poi lo abbracciò.
“Fratello mio! Che gioia averti ritrovato! Sta’ sicuro, farò ciò che Paolo mi ha chiesto, ma intanto vieni qui, siedi con me e raccontami tutto!”
Onesimo si sciolse dal suo abbraccio, sedette accanto a lui, lo guardò: e per la prima volta si sentì davvero in pace, con la certezza che il Signore avrebbe portato a termine, in lui e in tutti loro, l’opera di grazia che aveva iniziato.

Fonti
Lettera a Filemone
Lettera ai Colossesi
Rm 7, 18- 25
I Cor, 1, 23-24
Atti 5, 34-39; 7. 58; 8, 1-3; 9, 1-19; 9, 19-30; 13, 14.52

Laura Galvan