I NUOVI SECOLI BUI
G.K.’S WEEKLY, MAY 21, 1927
Certi critici ci dicono che desideriamo ritornare ai secoli bui, a proposito dei quali loro per primi sono completamente al buio. Sono al buio non solo riguardo a ciò che la frase dovrebbe significare, ma perfino riguardo a ciò che loro stessi intendono dire con essa. Nella migliore delle ipotesi, è un termine ingiurioso per indicare il Medioevo. Più spesso è un guazzabuglio di tutto e di qualunque cosa che vada dall’Età della Pietra all’epoca vittoriana. Un uomo parlava l’altro giorno dell’idea medievale che la nostra propria nazione debba essere favorita contro ogni altra nazione; evidentemente ignaro che quando l’Europa era medievale era assai meno nazionale. Qualcun altro parlava del concetto medievale di una moralità diversa per gli uomini e per le donne; mentre la moralità medievale è una delle poche che si applicasse in maniera quasi identica ad entrambi.
Se parlano con tanta ignoranza del Medioevo, di cui perfino gli storici stanno cominciando a sapere qualcosa, naturalmente sapranno anche meno dei secoli bui, di cui nessuno sa granché. I secoli bui, in senso proprio, furono quel periodo durante il quale la continuità culturale è quasi annientata tra la caduta di Roma e l’ascesa della società medievale; il tempo delle guerre barbariche e del primo delinearsi del feudalesimo. Naturalmente questo critici sanno assai poco di questo periodo; ne sanno talmente poco da arrivare a dire che lo rivogliamo. E tuttavia la cosa più strana, tra tutte le strane cose che dicono, è il fatto che c’è della verità in ciò che dicono. In un senso del tutto diverso da quello che intendono loro, c’è veramente un’analogia tra la nostra posizione e quella delle genti dei secoli bui.
Un modo per considerare la cosa è che entrambi siamo di fronte a un possibile trionfo della barbarie. Come ai loro tempi una potenza militare nuova e sproporzionata sorse nelle province, così nel nostro caso una potenza finanziaria nuova e spropositata è sorta nelle colonie. Allora Roma era a volte più debole delle legioni transalpine; adesso l’Europa è a volte più debole delle banche transatlantiche. Le vie di Londra sono alterate, se non distrutte, da tribù che si potrebbe legittimamente chiamare Vandali; e al posto dell’anarchia oltre il Vallo romano abbiamo l’anarchia di Wall Street. Ma anche se potremmo tracciare paralleli così inconsistenti per divertimento, sarebbe davvero profondamente ingiusto nei confronti dell’America, che ha ereditato alcune tradizioni romane più nettamente di noi; per esempio, la tradizione della repubblica.
Un modo assai più veritiero di esporre l’analogia è questo: che qui la storia si sta ripetendo, una volta tanto, in relazione a una certa idea, che si può descrivere al meglio come l’idea del santuario. [In inglese, il termine sanctuary significa sia “santuario” sia “rifugio, asilo” perché anticamente chi si rifugiava all’interno di una chiesa non poteva essere arrestato. In italiano questo doppio significato non esiste. N.d.T.]
Nei secoli bui le arti e le science si rifugiarono nei santuari. Questo era vero a quel tempo in un senso particolare e tecnico; perché si rifugiarono nei monasteri. Siccome noi lodiamo la sola cosa che salvò tutto dalla rovina, siamo accusati di lodare la rovina. Siamo accusati di desiderare i secoli bui perché lodiamo le poche candele sparse che furono accese per fugare il buio. Siamo accusati di desiderare il diluvio perché siamo riconoscenti all’Arca. Ma la questione immediata qui è storica prima che religiosa; ed è un fatto attestato da ogni storico che tutta la cultura che si potesse trovare in quel barbarico periodo di transizione, si poteva trovare in massima parte nel riparo degli istituti monastici. Possiamo disprezzare o ammirare la forma che quella cultura prese in quel riparo; ma nessuno nega la tempesta da cui essa fu riparata. Nessuno nega che san Dunstan fosse più colto di un pirata danese o che ci sia più arte negli archi gotici che nelle scorrerie dei Goti. Ed è in questo senso, di scienza e arte che cercano riparo nel santuario, che mi sembra esistere una vera analogia tra l’anarchia barbarica e il progresso di cui godiamo oggi.
Alcuni, perfino nel mio stesso ambiente morale e religioso, mi hanno chiesto come mai do tanta importanza alla Proprietà, che se è un desiderio umano può anche facilmente essere una bramosia umana. Ammetto che il mio principale impulso non è tanto di impedire che essa sia denunciata per motivi ideali quanto di prevenire che sia difesa per motivi di cinismo. Posso ascoltare pazientemente per ore un comunista che continua a ripetere che la Proprietà non è necessaria perché gli uomini devono sottomettere gli interessi egoistici agli ideali sociali. Comincio a spaccare la mobilia solo quando qualcuno comincia a dimostrare che la Proprietà è necessaria perché gli uomini sono tutti egoisti e ognuno deve pensare a se stesso. La ragione che giustifica la Proprietà non è che un uomo deve pensare a se stesso; ma, al contrario, che un uomo normale deve pensare ad altre persone, fossero solo una moglie e una famiglia. È che questa unità dovrebbe avere una base economica per la sua indipendenza sociale. Se pensasse solo a se stesso, potrebbe essere più indipendente da vagabondo; potrebbe essere più sicuro da servo. Ma il punto che m’interessa ora è che io apprezzo la Proprietà perché è una cosa nobile. Posso rispettare il rivoluzionario che la detesta perché è una cosa ignobile. Ma mi rifiuto di avere a che fare con il cinico che la apprezza perché è una cosa ignobile. Credo però che in questa crisi storica essa sia diventata una cosa non solo giusta ma, in un senso speciale, sacra. La vera proprietà sarà tanto più sacra in quanto sarà piuttosto rara. Sarà un’isola di cultura cristiana in mari di deriva insensata e di mutevoli umori sociali.
In breve, credo che siamo giunti al tempo in cui la famiglia sarà chiamata a sostenere la parte che anticamente fu del monastero. Vale a dire, si ritireranno in essa non soltanto le virtù caratteristiche che sono sue proprie, ma i mestieri e le pratiche creative che un tempo appartennero a ogni sorta di altre persone.
Negli antichi secoli bui, era impossibile convincere i capi feudali che aveva più valore coltivare erbe medicinali in un piccolo giardino che devastare una provincia dell’impero; che era meglio decorare l’angolo di un manoscritto con foglia d’oro piuttosto che accumulare tesori e indossare corone d’oro.
Quelli erano uomini d’azione; erano energici; erano pieni di forza e vigore, di esuberanza ed energia. In altre parole, erano sordi e ciechi e in parte folli, e piuttosto simili a milionari americani.
E siccome erano uomini d’azione, e uomini del tempo, tutto ciò che fecero è svanito dalla terra come vapore; e nulla rimane di tutto quel periodo se non le piccole immagini e i piccoli giardini fatti dai piccoli monaci gingilloni.
Come niente avrebbe convinto uno degli antichi barbari che un erbario o un messale potesse essere più importante di un trionfo e di uno strascico di schiavi, così niente potrebbe convincere uno dei nuovi barbari che un gioco di nascondino possa essere più educativo di un torneo di tennis a Wimbledon o che una tradizione locale raccontata da una vecchia balia possa essere più storica di un discorso imperiale a Wembley. Il vero carattere nazionale dovrà rimanere per un po’ di tempo un carattere domestico. Come la religione anticamente andò in ritirata, così il patriottismo deve ritirarsi nella vita privata. Questo non significa che sarà meno potente; alla fine può essere più potente, proprio come i monasteri divennero enormemente potenti.
Ma è ritirandoci in questi forti che possiamo restare in vita e fiaccare l’invasione; è accampandoci su queste isole che possiamo attendere l’abbassarsi della marea. Proprio come nei secoli bui il mondo di fuori fu abbandonato alla vanagloria della pura e semplice rivalità e violenza, così in quest’epoca passeggera il mondo sarà abbandonato alla volgarità e a mode gregarie e a ogni sorta di frivolezza. È come il Diluvio; e non solo perché è instabile come l’acqua. Noè aveva una casa galleggiante che sembra aver contenuto molte altre cose oltre ai comuni animali domestici. E molti uccelli selvatici dal piumaggio esotico e molte bestie selvatiche di una fantasia quasi da favola, molte arti considerate pagane e scienze considerate razionaliste possono venire in tempi così tempestosi ad appollaiarsi o a fare la tana al riparo del convento o del focolare.
di Luigi Negri* (Nuova Bussola quotidiana del 19-05-2016)
Illustrissimo Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, la preoccupazione che mi muove nell’indirizzarLe questa lettera aperta riguarda la situazione gravissima in cui versa la maggior parte delle scuole paritarie cattoliche del nostro Paese.
Varie iniziative, tra cui la sentenza della Cassazione che ha dato ragione al Comune di Livorno nel luglio scorso per la sua pretesa di esigere l’imposta sugli immobili da istituti scolastici non statali, hanno portato senza alcun preavviso – e ignorando accordi e regolamenti che definiscono le caratteristiche di ente non commerciale – ad un aumento notevole degli oneri soprattutto per gli enti proprietari, rendendo così precaria l’esistenza stessa di molte scuole, a partire dalle scuole paritarie dell’infanzia.
Il problema della libertà di educazione e quindi di una realtà scolastica che in qualche modo recepisca l’articolazione culturale esistente nel nostro Paese, è fondamentale per la democrazia.
La democrazia, infatti, è la possibilità di una convivenza libera e rispettosa delle varie componenti della nostra società, ma soltanto se esse hanno avuto la possibilità di approfondire in modo sistematico e libero la propria tradizione può esserci un’autentica democrazia.
E ciò sarà possibile anche attraverso il riconoscimento effettivo della scuola libera, nel suo valore di bene sociale, capace di realizzare nell’offerta formativa, lavorativa e nel servizio alle famiglie, il principio fondamentale della sussidiarietà.
L’imperfezione della nostra democrazia, non da oggi ma forse da più di cento anni, è legata a difficoltà di carattere giuridico, amministrativo, procedurale, ma fondamentalmente la difficoltà più grave è che non c’è mai stato un clima di autentica libertà di educazione e di scuola.
Per questa ragione oso rivolgere a Lei questo invito affinché vigili sul fatto che non venga ulteriormente ridotta la già precaria libertà di educazione e di scuola nel nostro Paese, e quindi perché promuova norme che non lascino margini interpretativi sfavorevoli, come in occasione di quella sentenza della Cassazione assicurarono esponenti del suo Governo.
Le difficoltà del presente, ma io credo anche del futuro, della nostra convivenza sociale possono essere gravemente accentuate da questa precarietà.
Lo faccio anche con molta tranquillità perché certamente nella mia vita ho dato spazio, energie, capacità di riflessione e di organizzazione a questo grande problema, dapprima come docente nelle scuole medie superiori e universitarie e poi come presbitero e mi riempie di sana soddisfazione la motivazione con cui l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel 2009, mi conferì la “Stella della solidarietà” scrivendo fra le motivazioni queste:
«S.E.R. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino Montefeltro, come si evince anche dal suo curriculum vitae, è persona fortemente impegnata nella vita religiosa e sociale ed il suo impegno è motivato non solo dalla sua vocazione, ma anche da uno spirito di servizio a favore della scuola e dei giovani. Come docente ha speso gran parte delle sue energie per promuovere, a livello scolastico nazionale, criteri autentici di libertà, di educazione e di insegnamento. Ha sempre preso coraggiosamente posizione sui temi di maggiore attualità, affermando, nell’affrontare anche le questioni più controverse, uno spirito di non ingerenza nei rapporti con lo Stato ma anche di non rinuncia al magistero morale della Chiesa»: questo è il senso di questa mia lettera.
Signor Presidente, ho aperto a Lei il mio cuore sulle esigenze di un più maturo rispetto delle varie componenti culturali e sociali presenti nel nostro Paese, prima fra tutte la componente cattolica.
Mi affido alla sua coscienza di cittadino, ancor prima che di cristiano, e alla sua volontà di servire il nostro Paese nei suoi bisogni innegabili e inderogabili.
La saluto e Le porgo i migliori auguri di buon lavoro
*Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa
Ecco cosa nasconde la cattiva fiducia voluta dal governo
Roberto Colombo (Sussidiario 13 maggio 2016)
Come recitava una pubblicità del Bel Paese lanciata qualche decennio fa dalla Galbani; la fiducia è una cosa seria e va data alle cose serie.
Di fiducia, infatti, vive ciascuno di noi in ogni rapporto familiare, amicale e sociale e vive un popolo e la comunità civile nel rapporto con chi ne rappresenta la sovranità attraverso l’esercizio della legislazione e del governo della nazione. Due ordini di rapporti che sono fondativi per l’esistenza di un soggetto individuale e politico, del cittadino e della società. L‘io si gioca in un rapporto con il tu; attraverso l’intelligenza degli indizi e la mossa della libertà, che convergono su quel singolare atto umano che è la con-cessione della fiducia. Chi chiede fiducia, non meno di chi la accorda, si appella ad un bene più grande di quanto l’aritmetica dei rapporti in azione e la dinamica delle forze in campo non lascino trasparire. Un bene più grande di quello derivante dal calcolo individuale dei vantaggi e degli svantaggi, del mercato della domanda e dell’offerta, delle rivendicazioni e delle condiscendenze, che chiamiamo bene comune.
Comune, cioè di tutti e di ciascuno, al medesimo tempo e con la stessa forza. Nessun bene individuale può trasformarsi in un diritto cogente per la società se esso non rappresenta (o, peggio, se calpesta) il bene di un altro soggetto o della comunità. Le convivenze affettive tra persone dello stesso sesso, nella richiesta di un loro riconoscimento giuridico, si rifanno ad una idea di bene per sé che — al di là di ogni considerazione sulla qualità di bene in sé di tali relazioni — non può affermarsi a scapito del bene di un soggetto terzo (ma di pari dignità e maggiore diritto di tutela) che è il bambino e, in virtù del valore sociale della procreazione e dell’educazione, del bene comune di un popolo. E non può neppure affermarsi sovrapponendosi all’istituto della famiglia, che sola ricapitola in sé il compito integrale e inseparabile della generazione, della maturazione della persona e della prima introduzione alla realtà che è offerto ai figli dall’amore coniugale tra una donna e un uomo.
San Tommaso d’Aquino parla della fiducia come di una speranza fortificata da una solida convinzione. La parola fiducia significa principalmente la speranza concepita perché ci si fida delle parole di qualcuno che promette. E altrove precisa che la speranza è una certezza per il domani che ha il suo fondamento in una realtà presente. La fiducia, come figura antropologica della speranza, è la proiezione della stima di oggi sull’incertezza di domani.
La fiducia può essere concessa a chi governa uno stato sulla solida convinzione che, attraverso l’esercizio del potere esecutivo e del suo rapporto con quello legislativo, venga promosso il bene comune della società attraverso percorsi normativi che, tutelando i reali diritti di tutti i cittadini, non prestino il fianco — anche in tempi e modalità legislative successivi — all’affermazione unilaterale di aspirazioni e rivendicazioni che vadano a scapito del bene di altri cittadini, già nati o che verranno al mondo, e dell’intera società.
La fiducia concessa al governo nel febbraio scorso dai senatori per il maxi-emendamento che ha consentito di far proseguire il percorso del disegno di legge sulle unioni civili è stata un’uscita di sicurezza per alcune norme palesemente incompatibili con il bene comune della famiglia e dei figli, nella speranza e nell’auspicio che quello che era uscito dalla porta non rientrasse surrettiziamente da una finestra legislativa o giudiziaria lasciata aperta nel testo di legge giunto all’esame finale della Camera. Al governo, che a suo tempo si fece promotore e garante di questa strada, era stato chiesto di vigilare perché ciò non accadesse, consentendo un emendamento di garanzia riguardo all’esclusione di ogni possibilità di ricorso alla maternità surrogata, ovunque questa degradante pratica possa eventualmente venire sfruttata a fini procreativi. Questo non è avvenuto ed è stata tradita la fiducia accordata in vista della tutela e promozione di un bene comune a tutta la società attraverso lo strumento giuridico legislativo: il bene dell’affezione e dell’educazione eterosessuale del figlio e il bene della dignità del corpo della donna e della sua soggettività procreativa.
Senza una esplicita esclusione della locazione uterina e della maternità su commissione nel testo della legge sulle unioni civili, sarà ora praticamente impossibile — anche attraverso una successiva legge sull’adozione — impedire il ricorso a questo tipo di pratiche disumanizzanti all’estero e il riconoscimento nel nostro Paese della paternità del figlio nato attraverso di esse. La fessura lasciata aperta nel testo approvato anche alla Camera presta agevolmente il fianco ad allargare la falla attraverso nuove norme condiscendenti o una interpretazione creativa dei giudici. Come dicevano i
nostri nonni, è inutile gridare al lupo quando si è lasciato aperto uno squarcio nella rete dell’ovile.
Peppino Zola (Nuova bussola quotidiana del 14 maggio 2016)
Ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo”, questa l’infelicissima frase pronunciata dal premier scout Renzi, di fronte a milioni di italiani, alla presenza dell’onnipotente Bruno Vespa.
Infelicissima frase, ma illuminante circa una certa cultura cattolica, che oramai non è più cattolica, perché si è fatta fagocitare dalla cultura laicista, come aveva preconizzato già 60 anni fa il servo di Dio don Luigi Giussani.
Se ha giurato sulla Costituzione, il premier dovrebbe sapere che essa contiene l’articolo 29, il quale proclama solennemente che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Tale norma rende incostituzionale la legge Cirinnà. Renzi ha tradito la Costituzione su cui ha giurato, come l’ha tradita quando ha reso impossibile ogni discussione sia al Senato che alla Camera, dove, peraltro, aveva una maggioranza così ampia da rendere solo arrogante il ricorso al voto di fiducia.
Risulta sempre più inspiegabile la fretta con cui il nostro scout ha voluto far approvare un ddl incostituzionale: forse è spiegabile solo con il desiderio di rendersi presentabile agli Obama ed ai massoni internazionali. Con Renzi, continua la maledizione che pare avere investito tanti politici cattolici, che hanno firmato la legge sul divorzio, quella sull’aborto ed ora la legge Cirinnà, che, si badi bene, non introduce nel nostro paese le unioni civili, ma il vero e proprio matrimonio tra persone dello stesso sesso, visto che numerosissimi articoli si rifanno alle norme che regolano il matrimonio tra coniugi (quello costituzionale) e la famiglia che ne deriva (quella costituzionale). Il premier scout ha quindi tradito sotto vari profili la Costituzione su cui ha giurato.
Ma ha tradito, come cattolico (così si proclama), anche il contenuto del sacro libro che dovrebbe essere il punto di riferimento di ogni persona cristiana, qualunque cosa faccia ed in qualunque posizione si trovi. Invece, lo scout ha lasciato a casa il Vangelo, che magari leggerà in qualche pausa della sua intensissima attività (più si agita e più fa disastri), ma che, per sua stessa ammissione, lascia rinchiuso nell’ambito stretto della sua sua vita personale e spirituale: essendosi definito “laico”, lo stesso Vangelo non può avere nessuna influenza a livello pubblico, contraddicendo, così, tutta la gloriosa storia della dottrina sociale della Chiesa.
Un conto è non far derivare direttamente dalla propria fede le norme civili (come fanno tutti gli islamici, anche quelli moderati), altro conto è rendere totalmente assente una presenza ed una direzione della vita che gioverebbe grandemente al bene comune di tutti, così come il decalogo di Mosè ha influenzato positivamente la direzione anche legislativa di una intera grande civiltà. Stando alla posizione espressa dal premier, il suo essere cristiano diventa totalmente indifferente rispetto alle battaglie culturali, sociali ed anche politiche, che ogni cattolico è chiamato a combattere, come ci conferma l’attuale insegnamento di Papa Francesco (“Chiesa in uscita”).
Purtroppo non c’è da sorprendersi, perché da decenni una certa cultura cattolica (di cui lo scoutismo è autorevole rappresentante) predica proprio nella direzione (errata) sintetizzata nella infelicissima, ripeto, frase del nostro premier.
Si impongono due osservazioni finali:
- Renzi sta andando avanti a forza di voti di fiducia. Anche sul prossimo referendum costituzionale, ha chiesto, di fatto, la fiducia su di sé: penso di non poter dare la fiducia ad un premier così arrogante e così indifferente alle istanze dei cristiani.
- Sono veramente rattristato dal comportamento e dalle dichiarazioni di alcuni cattolici tenuti in questi giorni. In particolare, non posso non riferirmi all’amico Maurizio Lupi, capogruppo del partito (non più essenziale, peraltro) che sostiene Renzi. Non può dirci cose inesatte: la Cirinnà ha introdotto un nuovo tipo di matrimonio e non le semplici unioni civili e quindi non può far passare per una vittoria quella che è una sonora sconfitta per tutta la nostra ultramillenaria storia. E, poi, il duo Alfano-Lupi stia attento a non farsi prendere in giro: il PD sta già lavorando per introdurre per legge l’adozione per le coppie omosessuali. Stiamo vivendo un delicatissimo periodo di transizione, nel quale dobbiamo assicurare, anche con grandi sacrifici, una presenza sempre più intelligente e appassionata dei cristiani. Per amore verso il nostro popolo.
Unioni civili: quando l’obiezione di coscienza sarà scambiata per razzismo, cosa faremo?
Antonio Righi (Libertà e persona 12 maggio 2016)
Le unioni civili sono legge. Abbiamo creduto che sarebbe stato possibile fermare, almeno in Italia, l’indebolimento della famiglia naturale (praticamente in stato d’avanzamento in quasi tutti i paesi occidentali). Lo abbiamo fatto appellandoci soprattutto ai politici di cultura cattolica (o che hanno potuto esercitare la loro funzione grazie ai voti dei cattolici) e alla CEI. Ma, duole dirlo, l’aiuto nella battaglia è arrivato per lo più dai semplici cittadini. Alla vigilia del voto sul DDL Cirinnà alla Camera il “cinguettio” del segretario CEI, mons. Galantino, ha reso ancora più evidente lo stato di debolezza (o peggio di accondiscendenza) in cui si trova in questo momento la Chiesa italiana rispetto alla politica del Governo Renzi. Impegnato in prima linea a difendere i nostri mari da trivelle estrattive inesistenti, mons. Galantino è rimasto praticamente muto (se non addirittura infastidito) nella battaglia portata avanti da tante famiglie italiane cattoliche (e non) in difesa del diritto dei bambini ad avere riconosciuto un padre e una madre. Ormai, comunque, è fatta, e come si dice, inutile piangere sul latte versato.
Lo scontro, dopo l’approvazione, si fa ancora più duro e per certi aspetti eroico. Si perché se il segretario della CEI ha taciuto fino ad ora in un tempo in cui poteva esprimersi liberamente, cosa accadrà adesso che la legge è stata approvata senza nessuna clausola all’obiezione di coscienza? Alfredo Mantovano, magistrato, dalle pagine della rivista Tempi, ci informa che saranno tempi duri non solo per i sindaci (che già avevano fatto sentire la loro voce su tale argomento), ma anche per tutti coloro, che in ogni modo e in ogni forma, disapprovino tali unioni civili, o semplicemente si ostinino a riconoscere validità etica, sociale e antropologica alla sola famiglia formata da un uomo e da una donna. Per Mantovano ci saranno implicazioni gravi che «riguarderanno gli insegnanti e i giornalisti che esprimano una visione diversa da quella della legge Cirinnà. Senza contare le conseguenze sui pasticceri e fiorai che si rifiutino collaborare alla celebrazione di queste unioni. Penso anche agli studenti o ai semplici cittadini che potrebbero pagare il loro dissenso».
E cosa succederà ai tanti sacerdoti che dai pulpiti saranno costretti ad annunciare, fedeli al Vangelo, che il matrimonio è solamente fra un uomo e una donna? E’ anche per questo che, secondo Mantovano, il decreto Scalfarotto sul reato di “omofobia” è stato archiviato. Nella legge appena approvata (a cui manca la firma del Presidente Mattarella) per Mantovano le previsioni contenute su possibili implicazioni riguardante il reato di “omofobia” sono implicitamente riprese, amplificate e rese più efficaci. Provando a ragionare in maniera disincantata, fra poco le unioni civili diventeranno veri e propri matrimoni con tutte le conseguenze del caso, primo nella lista, l’adozione dei figli (del partner o comprati con l’utero in affitto).
Siccome lo Stato, inoltre, si ritroverà di fronte ad una mole di nuove unioni da gestire basate solamente sul riconoscimento affettivo (ma che di fatto non possono contribuire alla natalità in quanto unioni sterili) verrà meno la possibilità di elargire pensioni di reversibilità a tutti. Facendo leva sull’eguaglianza sociale la toglieranno a tutti facendo apparire come un privilegio per pochi quello che è, in realtà, un diritto. Un ultima considerazione: riconoscendo “famiglia” un’ unione basata solamente sul reciproco sentimento (“dove c’è amore c’è famiglia”), chi domani potrà negare la possibilità che queste unioni possano costituirsi anche fra più persone?
Peppino Zola (sulla Nuova bussola quotidiana del 19 maggio 2016)
Caro direttore,
si respira una strana aria tra i cattolici. Da varie parti, è stato loro raccomandato che non possono non interessarsi di politica, in vista del raggiungimento del bene comune. In tal senso si sono espressi lo stesso Papa Francesco, il Consiglio Episcopale della Diocesi di Milano, il Coordinamento delle associazioni e movimenti della stessa nostra Diocesi (bella novità) e tante altre giuste prese di posizione. Tutte raccomandazioni da condividere appieno, senza se e senza ma. E penso che tutti i cattolici, senza alcuna distinzione, le condividano.
Ma è a questo punto che si respira quella “strana aria”. I cattolici pare abbiano timore di parlare tra di loro delle scelte concrete che, in occasione del voto, saranno obbligati a fare. A fronte dei propri percorsi personali per arrivare alla decisione ritenuta più adeguata alle varie situazioni, sembra che i cattolici abbiano timore di esprimere pubblicamente la propria opinione, forse per timore di incrinare la propria unità. Timore infondato, perché la propria unità non è fondata sulle opinioni particolari, ma sulla chiamata di Cristo nella sua Chiesa. È Cristo che fonda la nostra unità e quindi non dovremmo avere timore di parlarci tra di noi sulle scelte politiche che facciamo.
Giuliano Ferrara, recentemente ed a proposito di altra questione politica americana,così scriveva: «Bisogna dire che la politica il suo fascino struggente lo mostra proprio qui, nel mettere alle corde l’amicizia personale sotto il segno dell’inimicizia su questioni pubbliche». Questo pericolo, per i cristiani, non dovrebbe esserci, perché è Altro che dà senso alla vita e quindi anche all’azione. Il problema è che essi mantengano alto l’ideale per il quale si impegnano in politica e per il quale operano le scelte elettorali. Penso anche che sarebbe augurabile che pure sul piano delle opinioni politiche ci fosse una espressione di unità. Ma, in questo periodo, occorre anche stare alla realtà.
Caro direttore, con questa mia lettera vorrei contribuire a rompere questa sorta di omertà timida e silenziosa, comunicando a te ed ai tuoi lettori le ragioni della mia scelta, che si riferisce alla città di Milano, dove io stesso sono chiamato a votare, il 5 giugno, per il sindaco, il consiglio comunale ed il consiglio di zona, precisando, naturalmente, che anche altre scelte sono più che legittime, anche se da me non condivise. Con questa scelta intendo non indebolire, ma rafforzare la comunione che mi lega a tanti fratelli, accettando di approfondire un dialogo sempre più costruttivo e proficuo.
Innanzi tutto, inviterei ogni lettore a rientrare in tempo dagli eventuali ponti; in tempo, dico, per votare. Le nostre autorità si lamentano sempre del fatto che molta gente diserti le urne e poi fissano le elezioni proprio durante un lungo ponte. Ma tant’è! Andiamo a votare in tanti.
Dopo aver letto e riletto tutte le raccomandazioni a cui ho fatto cenno, sono arrivato alla conclusione che per il sindaco di Milano non possa e non debba avere dubbi: voterò senza alcuna esitazione per Stefano Parisi, perché ritengo che egli meglio possa attuare le nostre preoccupazioni in tema di sussidiarietà e di solidarietà. Infatti, Parisi è più limpidamente di altri preoccupato di essere fedele a tutte le tematiche che riguardano il grande tema della libertà, con particolare riferimento alla libertà di assistenza, alla libertà di educazione ed alla libertà della famiglia. E sono sicuro della efficacia della sua azione, perché egli sa come condurre una squadra omogenea.
D’altra parte, il candidato Sala è troppo dipendente dall’ala sinistra del suo schieramento e lo si è visto in modo clamoroso quando non ha potuto accogliere nella propria lista civica l’amico Massimo Ferlini della Compagnia delle Opere. E l’ala sinistra non può che continuare un percorso centralista e burocratico, che è sempre più insopportabile. Ed anche sui diritti civili non mi fido di Sala, che nei giorni scorsi ha partecipato ad una festa di c.d. famiglie LGBT. Non è vero che Parisi e Sala siano la stessa cosa: c’è una grande differenza. Dunque, Parisi.
Meno semplice la scelta per il consiglio comunale, perché, in questo caso, ho visto che vi sono molti amici candidati, tutti molto seri e credibili. Spero che molti di essi possano riuscire vincitori. Ma purtroppo (o per fortuna) occorre scegliere e, pur rimanendo intatta la mia totale stima per tutti gli altri, ho deciso di appoggiare la candidatura di Luigi Amicone, perché penso che egli meriti un premio ed un riconoscimento per tutte le nobili battaglie che ha condotto in questi anni come direttore di Tempi a favore della vita, della famiglia, della libertà di educazione, della sussidiarietà, etc.. Penso che potrà dare un contributo creativo all’amministrazione comunale sui grandi temi della cultura, della scuola e dell’assistenza.
Su “Storia e Chiesa” trovate una interessante antologia di scritti di varia origine sulla figura della donna nella Chiesa e nelle altre religioni e culture. Vi invitiamo a leggere questo interessante documento che illumina la profonda “rivoluzione” culturale operata dal Cristianesimo e che ancora può operare per liberare la figura femminile tuttora diffusamente imbavagliata.
di Emanuele Bombara (In terris 22 maggio 2016)
Sul noto quotidiano statunitense “The New York Times”, sabato scorso 7 maggio, è stato pubblicato un curioso e interessante articolo con il titolo “Gli ormoni della gioia della nonna” (“The Bliss of GrandMother Hormones”), a firma di Dominique Browning. Inizia così: “Tutta la mia vita, di donna, è stata condizionata dalla consapevolezza ormonale. La crisi adolescenziale? Gli ormoni. Lo splendido effetto di una nuova relazione sentimentale per la dieta? Gli ormoni. Le notti leggere di una nuova maternità? Gli ormoni”. E continua: “Le donne, nel corso della loro vita, sono torturate e istruite sull’intricata complessità degli ormoni e dei loro inevitabili squilibri. Per quelle di noi che non sono entrate in sintonia con le lezioni di scienze, quando ne abbiamo avuto la possibilità (forse perché troppo distratte dalla rabbia ormonale, o non le abbiamo nemmeno cominciate a causa degli ormoni dell’ansia per la matematica), la chimica ormonale rimane misteriosa. In parte, perché lo è”.
Alla depressione post-partum si attribuisce la responsabilità morale di molti figlicidi, alle tempeste ormonali si riconducono le cause di assassini e suicidi, ma anche la felicità sembra essere generata da un ormone, la serotonina, e così la tristezza e il pessimismo sono associati a livelli elevati di cortisolo. Anche la fedeltà e l’infedeltà dipenderebbero dalla quantità di ossitocina, l’“ormone dell’amore”, e sarebbe una condizione neurologica e genetica a “spingere” al tradimento. Da uno studio dell’Università di Queensland, in Australia, sembrerebbe ci siano i “geni della scappatella”, che entrano in funzione in certe condizioni biologiche, appunto, ormonali, e ambientali, psicologiche e culturali. Insomma, nell’epoca post-moderna, che ha optato per l’indipendenza dell’essere umano da un’autorità extra-terrena, l’uomo – e non soltanto la donna – “liberato” da Dio, sembra essere invece incatenato alla propria condizione genetica e ormonale. Gli ormoni sono la nuova divinità.
“Voglio credere che l’amore nasca dal cuore”, scrive la giornalista e scrittrice americana, autrice di numerosi libri, tra cui il più recente “Slow Love” (“Amore lento”), e fondatrice dell’associazione “Moms clean Air Force” (“La forza delle mamme pulisce l’aria”). E aggiunge di non avere sentito parlare, però, degli “ormoni della nonna”. Quella meravigliosa sensazione di tenere un pargoletto sul “cuore brunito dal tempo, che porta tracce di traumi, il cerotto o il gesso su fratture e ferite causate da vecchi dolori”. Nel diventare nonna, la donna inaspettatamente si sente “inondare di ormoni” di una gioia straordinaria. “Un altro modo di governarci degli ormoni”, descrive così, con sagace ironia, la Browning, la felicità dell’essere nonna, e nel dire “Eccolo!” al nuovo arrivato sulla terra. “È il solo modo in cui riesco a spiegare la misteriosa e caotica natura del mio modo di reagire a questo nuovo amore”, scrive. Quell’attenzione amorevole della nonna per il nipotino in ogni dettaglio della sua piccola vita, per cui ogni suono, “un suo grugnito o uno squittio ha il suo fascino”, e si potrebbe restare per sempre a contemplarlo, mentre ogni ansia e preoccupazione è raddoppiata, non solo per il neonato, ma anche per i suoi genitori.
Quale ormone, insomma, regola quella speciale sensazione di impotenza e di dipendenza della nonna verso il nipote, si chiede la Browning. E che controlla la particolare capacità di anticipare il futuro, che le nonne hanno, immaginando destini possibili e cambiamenti ambientali, con un bisogno di protezione del neonato dai mali del mondo, in un modo tutto diverso da come fa una madre.
Il sentimento della nonna è come una “marea emotiva”, dichiara la scrittrice, che certamente è legata ad un’alterazione ormonale. Ed “è questo che fanno gli ormoni – scrive –: creano una realtà alternativa”, agiscono sull’immaginazione e l’emozione.
Se la letteratura scientifica parla, insomma, degli ormoni della maternità e della gravidanza, non sembra invece che, prima della scrittrice Browning, nessun esperto abbia studiato gli “ormoni della nonnità”, e cioè, la base biologica-neurologica di quello speciale legame tra nonni e nipoti, quell’amore sereno e rasserenante, di intensa complicità, che ha una funzione preziosa e imprescindibile per la sana crescita di individui maturi, con la giusta auto-stima e un buon equilibrio psico-fisico.
Da uno studio dello psicologo Gerard Kennedy risulta che i nipoti trovano forza per affrontare i problemi della vita, sicurezza e stabilità, nel rapporto con i nonni, e in particolare con la nonna, da cui ricevono calore affettivo, senso di protezione, cura, e modelli di comportamento autorevoli e non impositivi, anche se vi sono modalità diverse a seconda dell’età dei nonni, del contesto culturale e ambientale, se il nipote sia unico, il maggiore o il prediletto.
Eleanor Maccobi e Jane Martin hanno descritto quattro “stili” principali di essere nonni: democratico, educativo e insieme affettivo; autoritario, istruttivo e poco sentimentale; indulgente, con elevata affettività e scarso controllo; indifferente, poco partecipativo sia per l’educazione che sul piano relazionale. Lo stile democratico è quello che maggiormente assicura il benessere esistenziale ed evolutivo dei nipoti.
In Italia, i nonni sono circa 12 milioni. Da una ricerca di Eurispes risulta che quasi il 93 percento dei nipoti italiani si sentono amati dai nonni, l’80 percento dice di essere ben capito e accettato con la propria personalità, il 72 percento dichiara di avere nei nonni maestri di vita. La nonna, in particolare, svolge un ruolo fondamentale. Il termine inglese è “GrandMother”, “grande madre”. La nonna, soprattutto materna, è una figura fondamentale per lo sviluppo. Ma la scrittrice Browning ha messo in evidenza un aspetto poco indagato, finora, in letteratura sia scientifica che narrativa: l’effetto dei nipoti sui nonni, e in modo specifico sulla nonna, per vivere in modo felice la terza età, grazie a questo nuovo amore. Uno schiaffo a chi consideri la vecchiaia come lo stato della morte del cuore e dell’assopimento delle gioie. L’“ormone della nonna” è di invidiabile giovanile vitalità.
da Avvenire 21 maggio 2016
Tra le tante cifre e le suggestioni contenute nel rapporto annuale del-l’Istat presentato ieri c’è un dato che più di tutti fotografa il momento critico e rende l’idea di quanto sia urgente un intervento a favore delle famiglie con figli. È il ruolo sempre più attivo e decisivo dei nonni nella cura dei nipoti, il loro coinvolgimento in termini di tempo, affetti, risorse. Senza i nonni probabilmente l’Italia sarebbe franata in questi anni di crisi, lo si è detto molte volte, e tante famiglie non ce l’avrebbero fatta a conciliare la vita col lavoro o persino ad arrivare a fine mese.
Questo meraviglioso elemento di forza della nostra struttura sociale è però allo stesso tempo un fattore di grande debolezza. I nonni sono diventati sempre più indispensabili e presenti anche perché, come dimostra il rapporto dell’Istituto di statistica, è aumentata la disoccupazione dei genitori, molti più giovani, anche con buoni titoli di studio, sono rimasti in famiglia in attesa di un lavoro, è calato l’impegno dei Comuni per gli asili nido lasciando a casa molti piccoli, e la spesa sociale ha svolto male il suo compito: ha permesso cioè che la disuguaglianza aumentasse, ma soprattutto ha lasciato che la crisi pesasse molto di più sui minori, spingendoli verso la povertà.
Ciò cui si è assistito in questi anni è stato un eccezionale capovolgimento generazionale in termini di bisogno. Prima del 2000 l’incidenza della povertà relativa riferita agli anziani era di 5 punti superiore a quella dei minori, oggi quella dei nipoti è quasi raddoppiata e ha raggiunto il 19%, mentre i nonni restano 10 punti sotto. Queste cifre spiegano bene la ragione per cui il legame tra bambini e anziani è andato rafforzandosi con l’avanzare della crisi: come una stretta di mano sempre più necessaria per non lasciare affondare il futuro rappresentato dalle giovani generazioni. Contemporaneamente denunciano però anche tutto il limite del welfare italiano.
Basta poco a mettere in luce l’origine dei problemi. Il quadro che emerge dall’analisi del sistema di protezione sociale italiano – per l’Istat «uno dei meno efficaci in Europa», con «la spesa pensionistica che comprime il resto dei trasferimenti sociali» aumentando il rischio di povertà – è impietoso: non solo è aumentata la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, ma è diventato più difficile riuscire a migliorare la propria condizione. Il cosiddetto ‘ascensore sociale’ è fermo al piano terra: chi sperimenta condizioni di svantaggio da giovane ha alte probabilità di restare ai margini anche da grande. La povertà, insomma, ha preso di mira i minori, ed è ereditaria. E lo scenario in cui questo si manifesta è quello di un Paese nel quale risaltano le emergenze indicate con forza anche dall’ultima assemblea dei vescovi italiani: lavoro, famiglia, demografia.
Cosa fare è quasi scontato. Va rivoluzionato, e al più presto, il sistema dei sostegni alle famiglie, va riequilibrata la spesa sociale guardando ai minori, va aperto il cantiere della riforma fiscale favorendo i nuclei con prole. L’intervento necessario può fondarsi su due pilastri: un sussidio universale mensile per ogni figlio (la direzione verso cui tende ad esempio la proposta Lepri firmata da 50 senatori Pd), e un sistema fiscale rivisto in virtù del ‘Fattore famiglia’ proposto dal Forum, cioè non tagliando le aliquote per premiare il ceto medio in modo indiscriminato, ma ampliando la ‘no tax area’ in virtù del numero dei carichi familiari.
La politica ha l’opportunità e il dovere di trovare convergenze al di là degli schieramenti, per non perdersi nell’ennesima sfida di ‘piani per la famiglia’ che servono solo a ravvivare la campagna elettorale e poi restano in vita solo per i motori di ricerca su internet. C’è bisogno di rimettere in piedi i poveri e il ceto medio con figli, non di distribuire soldi a pioggia. La solidarietà tra generazioni è stata ed è la forza del-l’Italia, tuttavia un Paese non può pensare di vivere aggrappandosi solo ai nonni, al loro affetto, che è cosa buona, ma poi soprattutto al loro tempo e alla loro pensione. Restare fermi oggi equivale a mettersi contro.
Peppino Zola (la Nuova Bussola Quotidiana del 26 maggio 2016)
Caro direttore,
Vorrei fare alcune osservazioni sul tema del prossimo referendum costituzionale previsto per ottobre, ma già, inspiegabilmente, al centro di aspre polemiche, sull’onda delle provocazioni lanciate dal duo Renzi-Boschi. Mi ha dato lo spunto quanto scritto, con la solita chiarezza, da Robi Ronza su questo giornale.
Innanzi tutto, mi si è chiarito che, contrariamente a quantoproclamato quotidianamente dall’onnipresente premier scout, il vero tema della riforma non è la finta abolizione del Senato (anche se per alcune materie viene eliminato il bicameralismo perfetto), ma il fatto che, a riforma attuata, ci ritroveremo con un assetto istituzionale molto più centralista, visto che le funzioni delle Regioni vengono pesantemente ridimensionate. La proposta di riforma mette in atto una serie di misure, in base alle quali sarà lo Stato centralista a determinare ogni cosa nella vita del nostro Paese.
La parola sussidiarietà scompare, con buona pace di tutti coloro che per anni si sono lodevolmentebattuti per affermarne il valore e la presenza (incomprensibile come alcuni di costoro stiano ugualmente dalla parte di Renzi).Penso, insomma, che dovremmo rovesciare il tema centrale della discussione sul referendum, concentrandolo sulla accentuazione di un centralismo (che forse Obama e Merkel chiedono all’Italia), piuttosto che sul Senato, la cui riforma, comunque, porterà un esiguo vantaggio economico, checché ne dica Renzi.
Napolitano si è molto arrabbiato, perché qualcuno ha detto che chi vota Sì sarebbe contrario alla Costituzione più bella del mondo e si è detto anche offeso. Lo stesso Napolitano dovrebbe dire a Renzi di non offendere continuamente chi ha l’intenzione di votare no, come invece sta facendo. Un premier dovrebbe condurre il Paese a discutere serenamente dei contenuti di una riforma costituzionale e non ingiuriare chi la pensa diversamente da lui, pur con motivazioni che egli per primo dovrebbe considerare seriamente.
Gli scout Renzi e Boschi, invece, non fanno che dividere l’elettorato, persino gli intoccabili partigiani.Ma tutta questa storia avrebbe dovuto nascere con un metodo diverso: un riforma costituzionale dovrebbe essere basata su un lavoro comune di tutte la forze in campo (come fu dopo la Liberazione) e non con uno spirito divisivo e di parte. Anche sotto questo profilo non è stato reso un buon servizio al Paese e l’atteggiamento di Renzi continua ad approfondire le ferite, invece che emarginarle.
La provocazione maggiore messa in atto sia dal premier sia dalla ministra è stata quella (e ci stannoinsistendo) di proclamare che se vincessero i no, lascerebbero, addirittura, la politica. Hanno anche il coraggio di dire che non stanno personalizzando l’esito del referendum. Ma, se proprio insistono, cercheremo di assecondare questo loro desiderio del cupio dissolvi. Personalmente, in questa direzione sono facilitato dal fatto che il governo, nel suo complesso, non ha in nulla tenuto conto delle istanze di tanti cristiani e non in tema di unioni di fatto. Anche se il vero motivo della mia contrarietà alla riforma proposta è quello detto all’inizio, circa la deriva centralista della conduzione del nostro Paese.
ll Foglio sta svolgendo una quotidiana battaglia per il sì, basata, soprattutto, sul fatto che chi vota Nosarebbe in cattiva compagnia. Mi sembra una motivazione un po’ sleale, anche perché è tipico di un voto referendario quello di creare fronti insoliti. “Cattive compagnie”, se è per questo, ci sono in entrambi i fronti, anche in questo caso. L’importante è che ciascuno offra ragioni fondate e convincenti per il proprio sì o per il proprio no. Sul piano dei contenuti, gli interventi di Ronza mi hanno aperto gli occhi sul fatto che questa è una cattiva riforma. La mia propensione al voto contrario è poi arricchita da motivazioni di metodo e di opportunità politica.
Circa quest’ultimo aspetto, mi sembra che finalmente, dopo alcuni anni, Berlusconi abbia detto unacosa giusta e sensata, quando ha affermato che il combinato disposto della riforma costituzionale (che indebolisce il Senato ed accentra i poteri) e della legge elettorale (Italicum), che Renzi ha affermato di non voler cambiare, porterebbe fatalmente ad una deriva autoritaria. L’affermazione è vera, purtroppo. L’Italicum, infatti, assegna il 60% dei seggi della Camera al partito (e non alla coalizione) che ottiene il 40% dei voti al primo turno elettorale oppure a chi vince il ballottaggio. Può dunque accadere che un partito possa ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, con solo il 30% dei voti (ed almeno 100 deputati sarebbero scelti dai partiti proponendoli come capi lista).
Non a caso, proprio in questi giorni la senatrice Cirinnà ha dichiarato che se passa la riformacostituzionale, poi passa tutto (e per tutto lei intende matrimonio gay, anche se già c’è, omofobia, eutanasia, azzeramento della legge 40, etc.). La ingenua bocca della verità della Cirinnà ha confermato che la deriva autoritaria e unilaterale è più che possibile (ed il Pd non aspetta altro) Caro direttore, mi rimangono due domande (e naturalmente molte altre): 1. ma perché Renzi ha iniziato così in anticipo la campagna elettorale referendaria? Paura? Se vincono i no, anche Alfano si dimette?
Terreno scivoloso: il gender scivola sui bagni
di Enzo Pennetta (Libertà e persona del 3 maggio 2016)
Terreno insidioso: il gender scivola sui bagni. (come può implodere su sé stesso)