Gran bella giornata la “Bella giornata insieme a Morimondo”.
Tanti nonni entusiasti dopo aver ascoltato i “nonni-soci” Francesco Botturi, Robi Ronza e Alberto Contri che ci hanno descritto come stia profondamente cambiando l’assetto culturale a livello globale.
Le loro analisi ci hanno richiamato al compito fondamentale che noi possiamo/dobbiamo svolgere, di argine alla spinta travolgente dell’innovazione tecnologica che, senza quasi ce ne si possa accorgere, sta liquefacendo i rapporti interpersonali e con essi le istituzioni di base della società (famiglia, politica, ecc.).
Il pericolo dell’oggi è il prosciugamento della “persona” che si sta trasformando in “individuo”, e cioè in un soggetto senza riferimenti se non sé stesso, portandolo, senza speranza di vittoria, a confrontarsi da solo con un potere anonimo, esclusivo e monocratico.
I media che alla loro origine erano nati come forma forte di difesa e reazione alle autorità, si stanno adagiando su un’onda di acquiescenza. Dobbiamo imparare a conoscerli a fondo per usarli e non a farsi usare.
Dei loro interventi daremo a breve la traccia scritta affinché li si possano ben meditare.
Il calore amichevole dell’intervallo “culinario”, la famigliarità spontanea degli incontri e rincontri tra i presenti e la calma bellezza monumentale del luogo hanno contribuito a rinvigorire gli animi e renderci più sicuri sul fatto che la nostra associazione può veramente costituire una buona base per aiutarci a mantenere in forza la nostra voce nonnesca.
Le relazioni dell’incontro
Oggi è in crisi la dimensione comunitaria nel senso di comunanza; dalla famiglia all’Europa ci sono legami che non fanno più comunità.
La relazione è come un ponte levatoio, quando la relazione si apre a comunanza significa letteralmente “cum” che sta per insieme e “munus” che indica qualcosa di ricevuto che è riconosciuto come tale e che stimola anche un impegno. Dunque c’è relazione comunitaria quando c’è un dato comune condiviso, riconosciuto come un vincolo perché questo qualcosa di comune chiede di essere conservato curato, condiviso e trasmesso.
Se ci pensiamo questo vale per tutti i tipi di comunità, anche per quelle più spontanee: già un’amicizia è un rapporto di questo genere altrimenti è una relazione occasionale e non ha storia. Mentre un rapporto ha storia quando non è più solo un rapporto tra noi tre, tra noi due ma un rapporto che si fonda su qualcosa che si ha in comune, quindi su qualcosa che non è di proprietà di nessuno: c’è un elemento di espropriazione nell’avere in comune, nel senso che non si può rivendicare come proprietà, il comune è l’inverso dal proprio.
Diciamo che dal punto di vista antropologico fondamentale non c’è più attualmente questa cosa preziosa che ci vincoli, quella cosa comune per cui si sta insieme e che crea nel tempo una storia. Certo questo è un impegno che ha il suo gravame ma anche la sua specifica soddisfazione, la sua tipica fecondità. Oggi la Comunità Europea non sta in piedi perché non ha nulla in comune, non c’è un bene comune prezioso che tutti riconoscano essere tale, non c’è più questa comunanza e dunque non c’è più neanche un vincolo che funzioni.
Non è che sia difficile mettersi insieme, anzi c’è la continua richiesta di stare insieme, la gente si mette insieme continuamente, ma è una relazione tra soggetti che non hanno più un patrimonio che possa essere conservato, cresciuto e, soprattutto, trasmesso. Questa è la prima osservazione. La mancanza di comunità come ethos, come modo di stare, e non sto parlando di un particolare tipo di comunità ma di un certo tipo di fisionomia umana che nell’aggregazione trova un lavoro specifico da fare, un compito che è una prospettiva storica, come quella che ha creato questo stupendo luogo dove siamo oggi, cioè Morimondo.
C’è quindi un grande vuoto antropologico e sociale. Come sempre succede in natura, il vuoto diventa disponibile ad altro, si cerca disperatamente di riempire il vuoto con dei sostituti che, più che pensati, sono vissuti.
Le due parole libertà e globalità mi sembra che dicano quali siano oggi le coordinate dei sostituti, quale sia l’alternativa nei confronti di una tradizione di cui si è come persa la chiave.
Io penso che la situazione è difficile e anche molto pericolosa però che è anche una situazione che apre ampi spazi di lavoro e di presenza come richiama continuamente il Papa.
La situazione attuale dipende da queste alternative, da questi modi con cui si cerca di riempire lo spazio lasciato vuoto, con cui si cerca di provvedere in qualche modo ad un convivere o per dire meglio, almeno ad un coesistere.
Il punto della libertà è certamente molto impegnativo e non facile da capire, perlomeno per il senso comune. La libertà di cui si parla è la libertà individualistica che, come possiamo subito notare, è da tanto tempo nella storia europea, noi oggi ne traiamo le estreme conseguenze.
È la libertà che viene da tutto l’Ottocento: libertà di essere liberi di fare senza avere interferenze.
È un liberalismo che libera certamente dalle tentazioni autoritarie di agglomerato umano di tipo social-comunista, però chiuso entro queste coordinate estremamente problematiche, cioè una libertà che non tocca i confini dell’altrui libertà o che di fronte all’altrui libertà si arresta per non interferire, per non entrare in conflitto.
Per questa via la comunità è sparita, dissolta. Non c’è più l’idea che la libertà sia una cooperazione di libertà, non casualmente bensì strutturalmente. Così come diciamo libertà di scelta diciamo libertà di relazione con l’altra libertà. Attraverso tale relazione passano tutti i fenomeni umani di base.
La libertà del liberalismo è un’idea di libertà come un’isola, è un ponte levatoio tirato su che crea la sua cittadella e il cui problema è come regolarsi con le altre libertà esterne, sentite come estranee. Invece il fattore umanizzante è costituito da questo intreccio di libertà umane. Si potrà mai educare un bambino trattandolo come uno che deve tenere a distanza la sua libertà dalla mia?
Così i fenomeni di amore sono concepiti attraverso la contrattazione degli spazi. L’antropologia contemporanea è completamente preda di questo presupposto, così non si riescono più a pensare tutti i fenomeni elementari della vita.
Quando noi diciamo bisogna tornare all’esperienza è molto giusto perché l’esperienza mostra che non è proprio possibile costruire la persona e l’esperienza stessa nell’isolamento dell’autoprotezione, nella immunizzazione dei rapporti come dice qualcuno. Come dire che con la libertà degli altri non ci si fa proprio niente, e le relazioni allora si possono regolare solo esternamente.
Così la figura normale è il contratto. Infatti la società in questa tradizione liberale è pensata come contratto. Ma non si può contrattualizzare tutto soprattutto perché lo spazio dell’esperienza diventa allora così asfittico, così astratto che non ci si può più appoggiare su niente.
Noi facciamo esperienza anche dentro di noi di questa estremizzazione, di questa idea individualistica, dove l’individualismo significa che uno non ha rapporti o che sta per i fatti suoi, dove i rapporti sono qualcosa di esterno a te, stanno di là, non riguardano il proprio io, dove quindi il nesso comunitario non esiste.
Ma l’essenziale dell’essere liberi sta nel rapporto della mia libertà con l’altra libertà, concettualmente noi non siamo molto abituati a pensare così. Per noi la libertà vuol dire scegliere, ma la libertà oltre che scegliere è scegliere per il bene dentro la relazione, non nel senso che la relazione sia qualcosa da cercare volontaristicamente, ma perché la libertà è essa stessa relazione.
Questo è il punto. Invece siamo abituati a pensare che la libertà è come una energia individuale che poi ha a che fare con un ambiente esterno, ma la libertà è essenzialmente relazione.
È poi vero che, in modo incoerente con queste convinzioni, a livello dell’esperienza noi notiamo che solo attraverso le relazioni uno diventa se stesso, assume la propria .Questo lo dicono anche gli individualisti, notano che è lì che si trovano i modelli, che si imparano le mosse, si trovano le sollecitazioni, le attivazioni che permettono di essere se stessi.
Allora vuol dire che la libertà è all’origine, cioè c’è una comunitarietà che dà libertà, non nel senso comunistico del termine.
Qui c’è evidentemente un luogo di battaglia culturale, si ha davanti una alternativa. È giusto pensare che la libertà liberale debba arrivare alla sua estremizzazione per cui chiamiamo progresso tutti gli spazi che possiamo sottrarre a una condivisione? Va bene che possiamo fondamentalmente definire come diritto tutto ciò di cui si sente l’esigenza, tutto ciò di cui si crede di avere bisogno? Va bene che, di conseguenza, tutto ciò diventi pretesa per cui la legislazione deve esattamente rispecchiare tutti questi percorsi individualistici e sancirne la bontà, darne la protezione giuridica, protezione che negli ultimi decenni si è estesa arrivando alla famiglia, alla generazione, alla sessualità, ecc.?
Il destino è quello di percorrere fino in fondo una strada imboccata molto tempo fa dal liberalismo, che ha combattuto tutte le sue battaglie di accomunamento di tipo comunista; da questo trae la sua gloria e dopo questa vittoria è arrivato come neoliberalismo a una individualizzazione separata, a pensare la vita come separazione? È questo quello che dobbiamo pensare e che molti pensano?
Per molti infatti il progresso è portare fino in fondo questa istanza, e lo pensano anche in buona fede, per cui il combattimento è portato a fondo in questa direzione in materie diciamo nuove come la libertà sessuale, affettiva, generativa. Tutto questo rappresenterebbe la modernità, la libertà in senso moderno.
Proprio davanti a questa estremizzazione, ecco l’alternativa: bisogna ripensare tutta la questione? La via più facile è la prima perché è già tutto predisposto, come uno scivolo dove è molto facile lasciarsi andare.
L’altra parola” globalità” mi pare importante.
Non dobbiamo restare come fino adesso abbiamo in fondo fatto anche per motivi complessivi di politica, di situazione culturale, abbiamo cioè puntato sul fatto dell’individualismo del libertarismo e, se vogliamo, del nichilismo libertario, abbiamo puntato su quello che potremmo chiamare fondamentalismo libertario.
Ma è importante, per capire una caratteristica di questo tempo, contestualizzare, cioè offrire come contesto a questa libertà libertaria quello della globalità.
Perché è importante mettere il fondamentalismo libertario nel contesto della globalizzazione? Perché la dimensione di globalità, molto occidentale, conferisce un senso nuovo a questo libertarismo radicale, in un certo senso gli viene anche in soccorso per cui la battaglia si fa ancora più difficile.
Il fatto che, mentre si configura questa situazione libertaria fondamentalista, si configura insieme un mondo globale che è un contesto nuovo e paradossalmente rafforzativo di questa idea di libertà che, diciamolo pure, è assurda.
Se il discorso fosse soltanto incentrato sull’abbandono del modello comunitario per spostarsi sulla formazione dura e pura dell’individualismo, si evidenzierebbe immediatamente un disagio perché, comunque sia il bisogno di comunità, di ospitalità, di convivenza accolta è un bisogno che sentono tutti giovani anche se sono spesso portatori di individualismo, ma il fatto che si configuri una situazione globalistica gioca in un modo piuttosto pesante, perché in fondo la globalizzazione, nel senso in cui stiamo parlando, rischia di diventare una sorta di legittimazione delle l’individualismo. Infatti la globalizzazione permette una socializzazione maggiore di quella di prima, un esempio ormai ultra banale è che tutti siamo in rete, tutti siamo connessi, tutti siamo dentro una rete mondiale.
Usando gli strumenti di Internet ci si trova aperti al mondo, ci si sente anche protetti da questa globalità. In fondo si parla di comunità virtuali, di comunità informatiche: È interessante che si chiami con la parola “comunità” una realtà come quella del web che di comunità non ha nulla. Cioè la globalizzazione ha la funzione psicologica di far pensare che siamo individui sfrenati ma che siamo associati. Dunque individualismo da una parte, socializzazione globale dall’altra e il gioco è fatto. Questo è il vero nuovo mondo in cui ognuno fa i fatti suoi in una “comunità” che è protetta e riconosciuta. Si aprono tanti spazi alla tua libertà e nello stesso tempo è una libertà che si appoggia all’anonimato della globalizzazione.
Questo non va sottovalutato, perché la globalizzazione, da questo punto di vista, sembra compensare ciò che l’individualismo perde. Sembra la dimostrazione matematica che uno più uno fa due, dove uno è la libertà individualistica e due è la globalizzazione. Uno più uno fa l’uomo compiuto: non abbiamo nessuno che ci rompe le scatole, abbiamo la nostra libertà e nello stesso tempo siamo però associati, nessuno può negarlo, nessuno può dire che siamo solipsisti e che evadiamo dalla realtà comune.
Voglio far notare che, quando si parla di globo, si parla veramente di una altra faccia dell’individualismo, perché il globo non è il mondo. Permettetemi questo piccolo sfogo filosofico: il trucco è dire che c’è il globo e quindi c’è il mondo. No, Globo vorrebbe dire che il mondo è unificato, ma non è affatto vero, il globo non è l’unificazione del mondo logo è solo una uniformità di strumenti generalizzati, messi a disposizione di tutti.
Con cui si può uniformare il mondo, ma in un certo senso si abbandona il mondo, o lo si censura, o lo si marginalizza.
Perché l’essere mondo dell’uomo non è infatti abitare una sfera che sta nell’ universo. Il mondo dell’uomo è un mondo di significati, un mondo di finalità, se vogliamo è un mondo di valori, un mondo di eredità condivise, un mondo di storia cui si appartiene.
È un mondo di una qualche progettualità che nasce non dagli strumenti ma dai fini che ci si prefigge. Potremmo dire che c’è mondo dove c’è comunità, non dove c’è una uniformità di strumenti.
La tecnologia, Jobs hanno realizzato una democratizzazione del mondo straordinaria, ma non si riflette, o si fa finta di non saperlo, che a monte di questa concretizzazione stanno dei vertici vitali sempre più potenti, sempre più radi, per niente democratici.
Non possono esserlo per il motivo banale che per avere tutta la tecnologia è necessario l’impiego di risorse umane e finanziarie che non sono assolutamente disponibili per la gente, sono immense risorse che vanno appunto dragate e messe a disposizione per poter creare e gestire tutto il mondo globalizzato, mondo non ancora così chiuso, non ancora così uniforme perché ci sono ancora conflitti interni.
Se tirassimo le linee che forse la storia non tirerà – non lo sappiamo – vedremmo un mondo sempre più piramidale, sempre meno comune e meno uniforme nel potere, più uniforme nei mezzi, sempre più guidato da qualcuno: vertici, élites, lobby inaccessibili, anonime, invisibili.
Allora dire che la globalità unifica il mondo è una terribile menzogna perché esclude tutta la carne del mondo, del vissuto insieme, della convivenza. Essa non interessa per nulla alla globalizzazione.
Questo mondo non è per niente uniforme dal punto di vista dei mezzi e dal punto di vista del potere, come dicono tutte le ricerche economiche, la differenza è sempre più accentuata.
Ora se il globo è il contesto di una vita vissuta insieme, le prospettive sono ben grigie: altro che i totalitarismi che abbiamo visto, siamo davanti ad una enorme potenzialità di controllo, soprattutto per la pochezza di vita vissuta insieme.
Di fronte a queste prospettive, che cosa si fa? Il Papa sta dicendo cose interessanti e nel nostro movimento c’è un riflesso di questo messaggio che è giusto. Cioè il Papa è ben consapevole della tecnocrazia, lo dice ad esempio nella enciclica Laudato sii e dice che, di fronte a un mondo così, di fronte al crollo di un patrimonio comune, non funziona una battaglia di principi astratti. Il Papa fa quest’operazione e dice “non facciamo troppe premesse antropologiche, entriamo in merito, diciamo che c’è una novità nella vita, annunciamo Cristo alla gente che incontriamo senza troppi preamboli diciamo che c’è una novità nella vita e cerchiamo di testimoniarla”.
Dal punto di vista della strategia culturale questo punto è particolarmente saggio, almeno secondo il mio parere: da una parte c’è un controllo tecnologico, dall’altra un crollo della tradizione.
Allora, dice il Papa, si deve andare armati del superessenziale, del Cristo che è risorto. Si va e ci si butta, senza preoccuparsi di troppe mediazioni. Però il Papa ha scritto adesso anche una esortazione sull’amore ed è come se avesse detto, sempre secondo la mia interpretazione, “guardate che c’è da ricostruire come un tessuto umano, anzitutto un tessuto affettivo perché il tessuto affettivo oggi è un disastro”. Quindi qui c’è l’annuncio da fare, ma anche tutto un lavoro culturale da fare sulle famiglie, c’è un lavoro delle generazioni per far vedere la bellezza delle relazioni umane.
Poi, con la Laudato sii, il Papa ha indicato le possibilità catastrofiche che si aprono, suggerendo di mettersi al lavoro. Non ha detto sostituiamo l’Evangelii Gaudium,cioè l’annuncio di Cristo. L’annuncio infatti va fatto oggi, con la schiettezza dell’oggi e la sprovvedutezza dell’oggi, come ingenuità forte e coraggio semplice. Ha però indicato un enorme lavoro sociale, culturale, politico da fare perché il mondo, come é, mette a rischio la sopravvivenza umana.
C’è dunque un compito gravissimo il dovere, già contenuto nell’ Evangelii Gaudium del ‘51, d’interpretare i tempi vedendo ciò che è di Cristo e ciò che è contro Cristo.
Approfondimento sollecitato da una domanda
Stare dentro il globo tecnologico, interpretarlo per riqualificarlo passando attraverso le questioni e i fatti che lo caratterizzano, comporta chiedersi quale ricerca di senso ci sia nel grande evento della tecnologia e dello sviluppo tecnologico.
Il valore della tecnologia va oltre il prodotto tecnologico, tant’è vero che la pubblicità lavora su questo (perchè al prodotto vengono attribuiti vari significati). Ciò che con la tecnologia si produce, il prodotto tecnologico può essere luogo di riconoscimento, se non viene oscurato il fatto che il riconoscimento viene dall’altro uomo, dall’attivazione della sua libertà e non dalla richiesta di una sua prestazione, se è finalizzato a riscattare la libertà dell’altro, se non è legato al possesso.
La tecnologia va al fondo del desiderio di ogni uomo, l’uomo desidera lavorare nel suo ambiente per trasformarlo, non solo perché deve rispondere a bisogni essenziali, altrimenti l’uomo si sarebbe fermato ad un certo punto, ma l’uomo non si arresta perché ha una infinita capacità di apertura al mondo, un infinito desiderio di armonia con esso, vuole creare una sua protesi con esso, vuole ricreare il mondo. Non è esatto parlare di desiderio d’infinito, ma di desiderio di un corpo risorto in perfetta armonia col mondo, affinchè la realtà gli sia amica, affinchè sia amico di Dio col corpo, affinchè la natura non sia più obiezione.
Io dirò delle cose che sono nell’ombra di quanto Francesco ha detto, a partire dalla mia competenza professionale. Anzitutto forse vale la pena di dire in poche parole perché stiamo facendo questo.
Perché, come hanno letto quelli che hanno visto il manifesto dei Nonni2.0, abbiamo pensato che bisogna accogliere questo frangente storico di una generazione come la nostra che è mediamente più agiata e in migliori condizioni di salute delle generazioni anziane che ci hanno preceduto, che è, viceversa, davanti una generazione più giovane mediamente più in difficoltà di come eravamo noi, e questo ci chiama ad una responsabilità, ad avere un ruolo di promotori, consolatori, sottolineatori delle virtù cardinali, la principale delle quali, in questo momento, è la fermezza, la Fortitudo.
Oggi facciamo una riflessione comune in questa prospettiva: c’è un ruolo molto più attivo di un tempo che noi siamo chiamati a svolgere.
Mentre sembrava che fossimo chiamati sulla panchina a passeggio con i cani, siamo sollecitati dalle urgenze, anche per ragioni pratiche di fronte al crollo del welfare, a svolgere un ruolo di nonni; questo è certamente una cosa utile ma non basta.
In questa prospettiva, ci diamo contenuti come quelli di oggi che sono interessanti per me e penso siano interessanti anche per voi.
Il paesaggio delle relazioni di forza che Francesco ha descritto si comunica a noi in modo naturalmente autoritario, attraverso il sistema mediatico che è cambiato radicalmente da come a noi è stato spiegato.
I massmedia nascono come istituzioni critiche verso il potere, in età illuminista, con la borghesia del tempo, appunto come strumenti critici verso l’ordine costituito, mentre adesso sono parte integrante dell’ordine costituito.
È un ribaltamento epocale, quindi noi dobbiamo assumere un atteggiamento verso la comunicazione di massa, consapevoli di questo. Il consumo finale dei prodotti mediatici è lo stesso di altri prodotti del mercato globalizzato.
Per la logica che Botturi ha illustrato, il sistema mediatico è stato risucchiato verso pochi punti di forza, e se c’è un settore dove il carattere autoritario della tecnologia è evidente, questo è il settore dei media. Quanto più la domanda è di avere una comunicazione di massa istantanea, tanto più questa comunicazione avviene soltanto con il benestare dei poteri costituiti. Se l’immagine di un campo profughi vi arriva in forma diretta sul vostro schermo, vuol dire che tutti i poteri costituiti attraversati dal segnale lo consentono, e più è buona la possibilità uditiva e visiva tanto più è condizionata.
Questa è la prima osservazione da fare, poi dobbiamo anche vedere che non solo è condizionata, ma è anche distorta. Le distorsioni sono di vario genere per esempio sono informazioni false, tanto più che cresce una generazione particolare di giornalisti cui si chiede di essere soltanto veloci e non intelligenti. I cronisti che, ad esempio, vediamo nei campi profughi sempre davanti a qualcosa, spesso non sanno neanche dove sono e ti dicono delle cose che sono state loro dette dai loro colleghi, non sono sollecitati ad approfondire nulla.
Faccio un esempio: quando raccontano dei campi profughi e delle condizioni di vita la cosa più interessante secondo me sarebbe sapere come mai questi profughi abbiano soldi per comprare beni e servizi: se ci sono 5000 persone in un posto possiamo pensare che ci sia una domanda di litri e litri di latte al giorno. Chi porta questo, chi lo beve? Come mai questi profughi appaiono sempre senza bagagli? Come sono arrivati? Perché le tende che usano sono tende da campeggio e non da UNHCR? Queste sarebbero le domande da farsi quando si va in un posto del genere. Ancora: nella condizione moderna le persone, se non vengono trasportate da mezzi non si muovono, cioè non farebbero quei grandi percorsi se non in modo organizzato.
Queste sarebbero le cose interessanti da sapere, allora l’informazione è fatta di spettacolarizzazione e non ha nessuna profondità, inoltre è caratterizzata da un pregiudizio negativo nei confronti del fenomeno religioso e del fatto cristiano in particolare con alcune rare eccezioni. Ad esempio il Papa, che però viene filtrato anche se riesce a non farsi filtrare del tutto, e noi abbiamo visto una tradizione di Papi molto in continuità tra di loro, grandissime personalità che sono riuscite a non farsi filtrare completamente. Ma il lavoro di filtro è enorme, questo è il contesto.
Come, ciononostante, avvalersi di questo sistema? Come utilizzare il vantaggio di essere così potente? Vi dicono che il Papa ha detto qualcosa ed è andato in un posto, va trattenuta solo la notizia che il Papa è andato a Lesbo e ha detto qualcosa, stop.
Poi però possiamo fare un uso consapevole di Internet e quindi, mentre un tempo per sapere cosa avesse detto un Papa bisognava essere accreditati presso il Vaticano, oggi noi possiamo, da qualsiasi parte della terra, usare il sito del Vaticano che ha 7 lingue e si vede che cosa il Papa ha veramente detto.
Altro esempio: esce l’enciclica, di tutto quello che l’enciclica ha detto viene sicuramente fatto un filtro e una censura. Per esempio della Laudato sii viene citata solo la prima parte perché è molto accattivante verso la cultura verde, tutto il resto viene censurato, per esempio è censurato il punto chiave dove il Papa dice che non si può essere per l’ambiente e contemporaneamente per l’aborto, oppure dove si parla di democrazia. Però possiamo leggerla molto facilmente anche noi. Bisogna che noi facciamo questo lavoro, alla nostra età perché abbiamo più tempo dei nostri figli, possiamo aiutare figli e nipoti a fare questo lavoro di riconoscimento che consiste nell’attingere informazioni originali.
Poi possiamo invitare i nostri nipoti a conoscere lingue straniere ma non solo l’inglese, bisognerebbe arrivare a 5 lingue, con tre si sta benino, con 5 si è perfetti, con una si è malmessi.
Dobbiamo aiutare figli e nipoti a consultare le fonti originali e anche fonti qualificate, che si trovano! Faccio un esempio che non mi riguarda e poi uno che mi riguarda.
Asia News, una fonte che ha ideato Bernardo Cervellera, è una fonte ottima, dà delle informazioni che da altre parti non ci sono. Io e un mio amico, il collega Cascioli, abbiamo fatto dei dossier che danno una informazione di base.
Questa è un’altra cosa che manca all’informazione di massa: l’informazione di base, per esempio sui flussi migratori: qual è il motore di tali flussi? Quali sono gli interessi che li caratterizzano, quali sono le notizie false o quali sono le notizie che non si danno? Faccio un esempio circa la campagna dei sindacati contro l’Austria per la chiusura del Brennero, cosa di cui si parla in questi giorni.
Io ritengo che il Trattato debba essere riformato e che l’Italia dovrebbe chiedere di riformarlo, ma stando così le cose, i paesi di primo ingresso sono tenuti a fermare i profughi, a identificarli e a respingere quelli che non hanno diritto di essere accolti. Ora i paesi di primo ingresso come l’Italia non possono più farlo perché questo sistema era stato inventato quando i flussi erano minori. La risposta è stata di due tipi: l’Europa orientale li rimanda indietro a viva forza, è una cosa brutta ma noi cosa facciamo? Facciamo finta di identificarli e poi li lasciamo scappare, per questo motivo molti scappavano verso il Brennero per andare poi in Germania.
Allora l’Austria si era organizzata per farli passare il più in fretta possibile, tanto poi andavano in Germania.
La Germania aveva deciso di accoglierli in massa, quelli che non voleva li prendeva la Svezia. Il sistema ha funzionato fino a un certo punto, poi la Germania ha detto basta anche per non perdere le elezioni e allora gli austriaci hanno chiuso il Brennero e noi ci strappiamo le vesti accusando l’Austria.
Nessuna stampa italiana solleva questa questione, ecco l’urgenza di fare questo lavoro, bisogna recuperare un ambito, uno spazio per comunicarlo, che è la famiglia.
Bisogna recuperare la relazione familiare anche come luogo di confronto a questo riguardo, per contrastare la posizione fortemente autoritaria della comunicazione di massa. Questo autoritarismo è particolare. Noi inevitabilmente pensiamo all’autoritarismo dei totalitarismi di tipo militare, di stivali e cinturoni. Ma l’autoritarismo di oggi è completamente diverso, è un totalitarismo dolce nelle forme! Vi faccio un esempio: forse molti di voi ogni tanto vanno all’Ikea, è una società della Svezia che è un paese autoritario e lo è sempre stato. Per avere un’idea dell’autoritarismo moderno andate all’Ikea, che ha gli stessi colori della bandiera svedese, provate a cercare di fare un percorso diverso da quello segnato dalle frecce.
Non ci riuscite, questo è l’autoritarismo moderno; noi colleghiamo sempre l’autoritarismo a qualcosa di arcaico e la libertà a qualcosa di moderno, non è vero! Molte dittature sono state moderne e inversamente la libertà della modernità non c’è, nella nostra società liberale le spinte sono di tipo autoritario.
Concludo dicendo che è possibile con la nostra iniziativa contrastare questo fenomeno.
Pensando agli interventi che mi hanno preceduto mi viene in mente la frase di Balthazar “la verità è sinfonica”: condividiamo lo stesso approccio nei confronti della società, a partire da professionalità diverse. Io voglio fare qualche osservazione in più a proposito dell’uso delle nuove tecnologie.
Insegno all’Università da circa un 15 anni. Pur non essendo un accademico come il Prof. Botturi, rilevo negli studenti ventiduenni una mutazione antropologica notevole.
Recentemente mi sono divertito a fare un piccolo sondaggio con i miei allievi: ho distribuito un questionario con alcune domande tipo “cosa fai nel tempo libero, quante ore stai davanti al computer ecc.”.
È risultato che, ovviamente, il 100% sta su Internet, tuttavia il mezzo di maggior utilizzo non è il PC ma il cellulare, sul quale stanno circa 16 ore al giorno. Nessuno legge il giornale, due o tre su 70 leggono un quotidiano on-line. Alla domanda su come si informano rispondono che leggono quelle news che arrivano sullo smartphone e che sono semplicemente dei titoli, non fanno nessun tipo di approfondimento. L’unico luogo sul quale approfondiscono qualcosa è Facebook. In questa apparente democrazia del web, chi comanda nel mondo, se ci pensiamo, come è già stato accennato, sono solo pochi gruppi potentissimi, gruppi che sanno tutto di tutti, per esempio sanno tutto ciò che abbiamo visitato tramite il nostro pc: siamo al Grande Fratello di Orwell, anzi peggio, perché lì, in qualche momento, i due innamorati possono cercare di togliersi dal controllo della telecamera… ma noi no.
I ragazzi intervistati sono di una estrazione sociale elevata perché vengono ad una Università costosa, eppure hanno un bagaglio culturale assai povero. Incontrando Ludovico Pellegrini che sta preparando una nuova edizione di Rischiatutto, sono rimasto colpito quando mi ha detto che, nel fare il casting per reperire i concorrenti, si sono resi conto che ai più giovani non si possono fare domande su argomenti anteriori al 2000 perché c’è un buio assoluto. Dunque il quadro è alquanto allarmante. Al libro che sto scrivendo e che uscirà a fine settembre ho messo questo titolo “McLuhan non abita più qui” nel senso che McLuhan diceva che il mezzo è il messaggio, oggi invece la gente è il messaggio, é la gente che si trasferisce reciprocamente le informazioni.
È cambiato veramente tutto: da quando è nato il web nel 1990, molte cose dal punto di vista antropologico sono andate peggiorando.
Pensate: il primo grande evento nel campo della comunicazione è stato la nascita del linguaggio tra 100.000 e 50.000 anni fa; poi bisogna aspettare un altro enorme intervallo di tempo prima che nasca la scrittura, nel 1500 a.C., poi altri 3000 anni per arrivare all’invenzione della stampa nel 1455 d.C., poi altri secoli fino alla nascita del primo quotidiano nel 1840. Da quel momento si sono improvvisamente susseguite una gragnuola di invenzioni: telegrafo, telefono, radio, fotografia, cinema, televisione, computer. Poi c’è stata la recentissima grande esplosione del web nel 1990 con le straordinarie opportunità concesse dall’interattività che hanno modificato abitudini di informazione, intrattenimento e acquisto.
Se ci pensate, è come se una gigantesca e lunghissima molla abbia cominciato a comprimersi 100.000 anni fa e adesso ci stia completamente schiacciando. In questo contesto in cui tutto si accelera, gli anziani, i nonni, sono spesso tagliati fuori dal sistema di comunicazione (ma anche gli insegnanti spesso lo sono), mentre i nostri figli che sono nativi digitali sanno fare delle cose che noi non pensiamo e non pensavamo di fare.
E questo colossale sviluppo delle tecnologie è inarrestabile: non si può impedire a un figlio di usare lo smartphone e di usare il computer. La generazione digitale è molto più avanti rispetto agli insegnanti e anche rispetto ai genitori. Ma sono anche schiavizzati dall’uso compulsivo dei nuovi mezzi di comunicazione digitali. Quando siamo a lezione, mentre ascoltano, se ascoltano, trafficano con il computer e il cellulare mentre io parlo.
Ogni anno, all’inizio delle lezioni, faccio loro questo scherzo di zittirmi improvvisamente per un minuto, così si fanno più attenti: poi li sfido a fare con soli carta e matita una divisione tipo 1.217.414 diviso 115. Non ci riesce nessuno senza il calcolatore che c’è nel cellulare, non sono più capaci di farlo a mano. Allora faccio vedere uno spezzone della nuova serie americana Revolution, scritta da uno degli autori di Lost, in cui a causa di un esperimento segreto andato male, sparisce la corrente elettrica da tutto il mondo. Che ritorna indietro di migliaia di anni, con conseguenze immaginabili.
È un disastro perché tutto si ferma, e così faccio notare che se capitasse a loro, dovendo fare a meno di tutti questi strumenti sarebbero praticamente morti. Perchè hanno smesso di usare e esercitare la memoria, l’analisi, la scrittura a mano, che è un grande esercizio per il cervello. Per rassicurarli, mostro loro che anch’io li ho tutti nella borsa, pur essendo un vecchio settantaduenne, ma ho imparato e sto ancora imparando a usarli per quello che servono cercando di non esserne schiavo.
Purtroppo l’itinerario scolastico attuale non li aiuta a ragionare, a riflettere, a studiare a memoria, a scrivere, a leggere, così rischiano di arrivare all’università un po’ come automi, e sono soprattutto capaci solo di fare copia-incolla dal web. Sta venendo su una generazione con una gran confusione in testa, piena di frammenti sparsi, e con un linguaggio smozzicato e destrutturato.
È allarmante, se pensiamo a cosa diceva il grande linguista Wittgenstein: “siccome il linguaggio è il mezzo con cui l’io si rapporta con la realtà, se è corrotto il tuo linguaggio, significa che è corrotto il tuo rapporto con la realtà”. Bel paradosso: sono continuamente connessi, ma sono fuori dalla realtà.
Siamo quindi in presenza di un grosso problema educativo. Quando Peppino mi ha proposto di coinvolgermi in questa avventura dei Nonni2.0, mi è venuto in mente, e qualcuno di voi se lo ricorderà, quando è nata Radio Supermilano con la quale abbiamo diffuso la cultura legata al nostro incontro con Giussani.
Quando c’è stato il dibattito sulle unioni civili con le discussioni sul Family io ne ho parlato apertamente con i 600 amici che ho su Facebook, ho litigato con alcuni, approfondito con altri, un po’ ne ho persi, ne ho conosciuti di nuovi: il social network si è rivelato un luogo simile alla nostra radio Supermilano, un luogo di confronto e di diffusione di argomenti importanti, non soltanto un luogo di cazzeggio, come molti pensano. Sono mezzi nuovissimi, che si basano però su intuizioni di uno psicologo americano, Abraham Maslow, che già negli anni ‘50 sosteneva che una volta soddisfatti alcuni bisogni primari, nell’uomo si fa sentire il desiderio di far parte di una comunità, essere riconosciuto, essere stimato. Sarà pure un luogo virtuale, ma è comunque una agorà nella quale, se dite qualcosa di interessante, la gente vi ascolta.
Non possiamo quindi demonizzare questi mezzi, dobbiamo assolutamente impadronircene svolgendo un ruolo attivo e vitale, anche in quanto nonni: poiché siamo tutte persone normalmente intelligenti, non possiamo arrestarci di fronte alla banalità del “ma io non so come si fa”. È quindi necessario che impariamo ad usare internet e i social media, per portarvi dentro la nostra cultura e animare una adeguata “conversatio”.
C’è anche un altro problema, che riguarda i pericoli della rete per i più piccoli, a cui nessuno insegna come difendersi. Di nuovo, poiché insegnanti e genitori pensano di essere indietro anche di fronte ai ragazzini, li lasciano fare. E invece, poiché proprio i nonni vicariano sempre più spesso i genitori nell’educazione e nell’assistenza ai più piccoli, potrebbero essere loro, dopo avere imparato, a mettere in guardia i più piccoli sui pericoli della rete. Abbiamo quindi pensato di organizzare dei corsi per i Nonni2.0, prima per insegnare loro a muoversi sulla rete, e poi perché possano insegnare ai nipoti come stare sulla rete e come difendersi dai pericoli in agguato sempre sulla rete. Non ci vuole molto, abbiamo già la disponibilità di una formatrice della Regione Lombardia, ho già parlato con il presidente di Telefono Azzurro che ci metterà a disposizione anche gli esperti web della Polizia di Stato.
Attenzione però: da un lato i nonni devono assolutamente imparare a padroneggiare pc e smartphone, muoversi sui social network, perchè poi siano capaci di dialogare su questo tema con i nipoti. Ma senza un acritico entusiasmo verso mezzi che, se abusati, diventano pericolosi. Rimane importantissimo insistere perché i bambini e i ragazzini scrivano a mano, leggano, e non usino abitualmente un computer prima dei 9 anni. Per saperne di più, consiglio di leggere Demenza Digitale, di Spitzer (Corbaccio Editore).
Grazie.